Il diritto di sapere del tele-elettore

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La regressione della nostra democrazia si manifesta anche così, non soltanto nella piaga della corruzione. Anzi, proprio il rifiuto di rispondere, di essere «accountable », responsabile dei propri comportamenti, è alla radice di una corruzione che si espande nel silenzio interrotto – dal caso Telekom Serbia al Monte dei Paschi, alle avventure di Roberto Formigoni – proprio dalle domande dei giornali.
È stupefacente osservare come persino il Pontefice, che per definizione non deve rispondere dei propri atti a nessuno, si senta in dovere di spiegare perché abbia lasciato il Soglio. I massimi esponenti della società  laica si sottraggono invece al dovere di misurarsi fra di loro e negano il nostro diritto di interrogarli e di vederli confrontarsi nel dibattito.
Non avvertono, accampando a volte stravaganti e risibili giustificazioni, l’enormità  di questa anomalia che colloca l’Italia fuori dall’Europa civile, dalle maggiori nazioni Americane e ora anche lontana da una nazione come il Kenya, indipendente da neppure cinquant’anni, dove i cinque candidati, fra i quali tre senza alcuna speranza di successo, hanno per la prima volta accettato di misurarsi gli uni contro gli altri.
Decenni di esperienza hanno dimostrato che la formula del dibattito fra i candidati è fondamentale per sondare, oltre alla serietà  o improbabilità  di programmi imbastiti per l’occasione, la personalità  di uomini e donne che pretendono per sé, o per i loro candidati, il diritto di governarci tutti.
È in queste occasioni che essi ci danno la misura relativa della loro statura politica e morale che sempre affiora anche dalla più meticolosa delle preparazioni. Il fiacco, distratto Obama che fu battuto da Romney nel primo dei tre dibattiti divenne, dopo quella lezione, il presidente che ritrovò la convinzione di sé e delle proprie idee, poi manifestate nel coraggioso discorso alla Nazione.
A questa vitale necessità  di giocare la partita in trasferta, di vedersela l’uno con l’altro, di accettare le domande più dure che non sono mai le prime, ma sono il «follow up», le seconde, generate spesso proprio dalle risposte evasive, si finge che possa funzionare da surrogato la orizzontalità  dei social network. In queste, il rapporto gerarchico fra il vertice e la base sembra finalmente annullato. Di fatto, sta avvenendo l’esatto contrario.
L’appiattimento orizzontale della partecipazione del consenso ha esaltato, non ridimensionato, la verticalità  solitaria del pastore che muove il gregge facendo credergli di avere elaborato, e non subito, il percorso Se anche si finge di ignorare il controllo ferreo e occhiuto che i gestori dei server e dei blog esercitano sulla partecipazione falsamente «open», l’orizzontalità  della base trasforma in idolatria il consenso. E infatti qualifica settariamente gli oppositori e i critici come eretici o traditori.
Mentre i capi politici più tradizionali escogitano teoremi algebrici per rifiutarsi al confronto, preferendo la malinconia desolante della par condicio, gli ispiratori della nuova democrazia tornano al più collaudato e vecchio degli espedienti, il finto dialogo con una folla informe. Si rivolgono al popolo, alle masse, rifiutando al cittadino il diritto di interrogare, di interloquire, di contraddire chi lo vuole ridurre a spettatore.
L’intermediazione dei “media”, con il loro diritto-dovere di fare domande, perché l’opinione pubblica conosca e capisca, non è una cacofonia; è la forma migliore, seppure non perfetta, che le società  del ventesimo secolo abbiano creato per spezzare l’incantesimo della fama che alimenta se stessa, per rompere il meccanismo esiziale del “burro o cannoni” o delle sfilate sulla Piazza Rossa.
Rispondere, dibattere, non sono un optional, sono norme non scritte eppure fondamentali della vita democratica. Per questo ogni despota o profeta deve negare a priori ogni rispetto e ogni ruolo ai media perché ne teme la funzione e deve screditare il mezzo per evitare gli effetti e scavalcarli.
Soltanto in Italia sembra che i cittadini divenuti «pubblico» accettino o addirittura applaudano chi li riconduce a folla.


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