«Numero chiuso» anche in carcere se la cella è affollata

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MILANO — Carceri a numero chiuso come «unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità  costituzionale l’esecuzione della pena» se le condizioni detentive sono «contrarie al principio di umanità »: mentre sui 66 mila detenuti in 47 mila posti il legislatore latita e i partiti tacciono a dispetto dei richiami del capo dello Stato e delle inascoltate denunce dei radicali, con una ordinanza senza precedenti un Tribunale di Sorveglianza italiano, quello di Padova, solleva d’ufficio una questione di incostituzionalità . E chiede alla Consulta una sentenza «additiva», che cioè dia ai giudici la facoltà  di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto quand’essa potrebbe determinare «grave infermità  fisica» (unico evento oggi contemplato dalla legge), ma anche nei casi in cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in «trattamenti disumani e degradanti», secondo la definizione della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo nelle sentenze che hanno condannato già  due volte l’Italia per aver lasciato ai carcerati meno di 3 metri quadrati a testa.
L’espressione «numero chiuso» naturalmente non compare mai nella dotta ordinanza redatta dal giudice Marcello Bortolato nel collegio presieduto da Giovanni Maria Pavarin. Ma sarebbe la conseguenza pratica se la Consulta accogliesse la questione: come negli Stati Uniti, dove la Corte Suprema nel 2011 ha confermato l’ordine che nel 2009 una Corte federale aveva intimato al governatore della California di ridurre di un terzo la popolazione carceraria in base all’ottavo emendamento della Costituzione americana che vieta le pene crudeli; o a come in Germania, dove sempre nel 2011 la Corte costituzionale ha richiamato il dovere di interrompere reclusioni «disumane» se le soluzioni alternative sono improponibili.
Il dilemma postosi al Tribunale padovano riguardava una richiesta di sospensione e differimento della pena avanzata da un detenuto che, dopo 33 giorni con a disposizione 3,03 metri quadrati nella casa di reclusione di Padova (889 presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con 2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in concreto ridotti dal mobilio. Comunque sempre meno dei 3 mq a testa che Strasburgo (nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani di condanna dell’Italia nel 2009 e 2013) ha ritenuto parametro vitale minimo al di sotto del quale c’è violazione flagrante dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’uomo e dunque, per ciò solo, «trattamento disumano e degradante».
Il Tribunale muove dalla propria impotenza: deve eseguire una pena che sa disumana e degradante, ma non può evitarlo perché l’articolo 147 (invocato dall’avvocato Diego Bonavina) consente di rinviare l’esecuzione della pena solo in caso di grave malattia. Eppure, ragionano i giudici, mentre la pena resta legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene raggiunta, il fatto che essa non possa consistere in un trattamento contrario al senso di umanità  significa che «la pena inumana non è legale, cioè è “non pena“, e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità  del condannato». Da qui la richiesta alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà  del giudice di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un «congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità  della pena, e dall’altro di difesa sociale».


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