Nella Tunisia della rivoluzione smarrita
TUNISI. NON pochi tunisini angosciati vedono gli islamisti dappertutto, non solo nei posti chiave dello Stato ma anche sotto il letto, perché pensano che col tempo cercheranno di trasformare i privati cittadini in fedeli. Eppure la rivoluzione rubata non ha una netta impronta repressiva. È una minaccia rampante. L’espressione ritorna spesso nelle conversazioni. Per il momento la libertà di espressione si manifesta con vivacità . I teleschermi pubblici ospitano dibattiti in cui si critica il governo. I giornalisti sfidano le autorità e non si trincerano dietro l’autocensura, denunciano i soprusi del potere e sfidano la giustizia, che gli avvocati dicono addomesticata. Si discute sulle piazze e nei caffè apertamente, ad alta voce. Le manifestazioni e le contro manifestazioni sono frequenti. A quelle alimentate dall’opposizione rispondono quelle islamiste, da un po’ di tempo meno imponenti, indette per affermare la legittimità del governo. Ritrovo insomma una Tunisia traumatizzata ma spavalda. Né rassegnata né trionfante. Divisa.
La Tunisia è stato il detonatore delle rivolte arabe contro la dittatura e quindi le tappe della sua rivoluzione hanno un’importanza particolare. Ce l’hanno anche per il grande Egitto, che due anni fa ne ha seguito l’esempio. L’islamismo si è impadronito della “primavera araba” con un forte appoggio popolare, legittimato da libere elezioni. I veri promotori della rivoluzione appartenevano alla generazione del Web (un tempo si sarebbe detto forza progressista della società civile) e sono stati relegati all’opposizione. All’inizio, è bene ricordarlo perché rivelatore, c’è stato il suicidio del giovane tunisino Mohamed Bouazizi, umiliato dai poliziotti che avevano rovesciato il suo carretto di frutta e verdura. Non è stato certo quell’episodio del 17 dicembre 2010, già diventato leggenda, a motivare le rivolte arabe. Ma quella è stata la scintilla. Ed era di natura sociale: un ragazzo povero che si toglie la vita perché maltrattato dagli sgherri del raìs ricco e corrotto. La religione non c’entrava. Gli islamisti sono arrivati dopo e hanno esercitato una forte attrazione in società in cui l’identità musulmana prevale su tutte le altre.
Gli islamisti erano senza macchia, uscivano di prigione o rientravano dall’esilio. Non si erano compromessi con i raìs. Erano vittime e oppositori. Ma c’entravano poco con la rivolta sociale e in favore della libertà . Avevano altri ideali e tuttavia nel clima insurrezionale incarnavano il nuovo e le annesse speranze, anche se erano ancorati a un passato remoto. L’equivoco permane. Si moltiplicano le contraddizioni, evidenti sintomi di instabilità e di incertezza. Progressi e regressi si alternano. Alle delusioni, alle frustrazioni, alle paure seguono improvvisi entusiasmi e mobilitazioni per impedire che la “primavera” si concluda con un naufragio. La rivoluzione continua, benché se ne dichiari con insistenza il fallimento; o sia addirittura negata, come se non fosse mai cominciata. In realtà non c’è nulla di più rivoluzionario del tentativo di realizzare nell’Islam (pre illuminista) una convivenza rispettosa di fede e ragione, e del simultaneo passaggio dalla dittatura o dall’autoritarismo a un’accettabile versione della democrazia. Dalla spontanea rivolta di piazza Tahrir e dell’avenue Bourghiba si è passati alla complessa trasformazione della società musulmana. Ed essa chiede tempo.
Ben più vistosa del barbuto che beve birra al bar Univers, sull’avenue Bourghiba, è la contraddizione implicita nel fatto che l’eroe nazionale, nel paese governato dagli islamisti, sia stato un uomo politico laico. Soltanto dopo essere stato assassinato, la mattina del 6 febbraio, da due giovani probabilmente espressione dell’estremismo religioso, Cohkri Belaid, leader di El Watad (Movimento dei patrioti democratici) è diventato il simbolo della resistenza all’islamismo politico, cioè all’assorbimento totale del potere nella fede, al prevalere di coloro che vedono nel Corano la fonte di tutta l’organizzazione sociale e della morale collettiva. Per questo è adesso sepolto tra i martiri della nazione. A consacrarlo è stata la folla che l’ha accompagnato al cimitero di Jellaz, a Tunisi, dove è arrivato avvolto nella bandiera nazionale e su un camion militare. Quel funerale e il simultaneo sciopero generale, il primo dal 1978, sono state le prove della crescente impopolarità del governo dominato da Ennahda (Movimento della rinascita), il partito islamista. L’islamismo nella sua versione attuale si è rivelato inadeguato a esercitare il potere. Impacciato nel gestire l’economia e i problemi sociali. I risultati sono infatti mediocri, o addirittura giudicati disastrosi secondo l’opposizione. Anche questa, l’inesperienza o l’incapacità a governare degli islamisti, è una rivelazione, che sfiora quella trascendentale perché invita a distinguere politica e religione. Non è con quest’ultima che si risolvono i problemi concreti di una società . È una lenta presa di coscienza neppure due anni dopo le trionfali elezioni dell’ottobre 2011, le prime in un paese arabo liberato dalla dittatura, nelle quali Ennahda conquistò 89 seggi sui 217 dell’Assemblea costituente, vale a dire tre volte più del partito arrivato in seconda posizione. Non avendo tuttavia la maggioranza assoluta, gli islamisti si sono alleati con due partiti minori, un tempo di sinistra, comunque laici, e hanno lasciato ai loro leader incarichi formalmente importanti: a Moncef Marzouki (un medico, capo del Congresso per la repubblica) la presidenza della Repubblica; e a Mustafa Ben Jaafar (un altro medico, capo di Ettakatol, Forum per il lavoro e le libertà ) la presidenza dell’Assemblea costituente. Le due piccole ma rispettabili formazioni politiche dovevano essere una garanzia democratica, ma non si sono rivelati in grado di ridimensionare, tenere a bada, il potere di Ennahda.
L’assassinio di Chokry Belaid, un oppositore di sinistra, non ha certo favorito l’islamismo politico nella sua espressione radicale. Forse ne ha scandito l’annunciato declino. Il processo di islamizzazione è un’altra cosa. Non è stato frenato e resta galoppante in quanto operazione di aggiornamento in corso nella vasta, frastagliata area islamista. Tra polemiche, tensioni e scontri, sotto la pressione della realtà quotidiana, si tenta di adeguare la pratica alla società del Ventunesimo secolo. Si ha l’impressione che sia una ricerca condotta a tastoni. Più che un laboratorio di idee sembra una rincorsa affannosa di consensi popolari in fuga. Il paese lo sente e insegue a sua volta quel che assomiglia alla “primavera” smarrita.
La forte partecipazione al funerale di Chokry Belaid è stata un’aperta manifestazione contro il governo e Ennahda ha accusato il colpo. Ne sono seguite profonde lacerazioni all’interno del partito. Quasi un’implosione. Un’ala più modernista, rappresentata dal segretario generale (e primo ministro), Hamadi Jebali, è entrata in aperta polemica con lo storico leader del partito, Rachid Ghannouchi. Hamadi Jebali, un ingegnere e un militante islamico che ha passato almeno tre lustri in carcere, oggi è considerato un moderato. Oggetto della contesa, che l’oppone in questi giorni a Ghannouchi, è la proposta di formare un governo di tecnocrati. Vale a dire di passare da un esecutivo a maggioranza islamista a un esecutivo laico. L’evoluzione è evidente: il primo ministro Jebali, che ha preso l’iniziativa, un paio d’anni fa suggeriva di creare un califfato, vale a dire uno Stato teocratico.
Nessuno si è azzardato a definire laico il governo proposto dal primo ministro. Lui se ne è ben guardato. L’espressione è stata bandita dal linguaggio politico tunisino. Nessun partito di governo o d’opposizione osa rivendicare quella identità , perché laico è sinonimo di ateo. Neppure il laico Chokri Belaid, diventato l’eroe nazionale dopo la morte, si definiva tale, benché lo fosse. È come se essere ateo più che un peccato fosse un crimine. Nessun politico accenna a una separazione tra Stato e religione, anche se il problema è al centro della contesa. Nessuno rivendica la laicità , neppure nell’opposizione di sinistra. Tutti sono musulmani ed è nell’ambito musulmano che si svolge il dibattito. Sia pure da posizioni profondamente diverse. È questa l’islamizzazione galoppante, ritmata dall’affannoso tentativo di adeguarla ai problemi concreti della società tunisina, una delle più avanzate del mondo arabo.
Il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, eletto dall’Assemblea costituente, militante per anni dei diritti dell’uomo, e per questo finito in carcere, era considerato un laico. Ma il suo partito non ha esitato a partecipare al governo dominato da Ennahda; e lui, personalmente, si adegua al nuovo linguaggio. È uno dei tanti sintomi dell’islamizzazione simultanea a un confuso processo di modernizzazione, come dimostra l’iniziativa del primo ministro. Non c’è, ed è evidente, un islamismo ma tanti islamismi. Le tendenze sono numerose. Le correnti moderate e integraliste si delineano nei partiti che si definiscono islamici. La prova del potere li spinge al conservatorismo, alla tradizione, per quanto riguarda i costumi, e al liberismo in economia.
Lo chiamerò Mohammed. È il vice capo di una delle duecentosessantadue cellule di Ennahda e mi spiega che dieci dei quindici membri del mini ufficio politico della sua sezione si sono espressi in favore della formazione di un governo di tecnici, e quindi in favore del modernista Jebali, e contro il dogmatico (e mitico) Ghannouchi, che rifiuta l’idea. C’è quindi un dibattito tra gli islamisti moderati e gli intransigenti. Mohammed non sa se la sua cellula rispecchia i rapporti di forza
nel partito. È comunque pronto a seguire la maggioranza che affiorerà , come esige la regola. Si può essere scettici sul livello di democrazia all’interno di Ennahda. Mohammed ammette soltanto che non mancano i moderati. E lui lo è. I continui riferimenti alla vita di Maometto rivelano un certo candore. E nel candore si scontrano fede e ragione: i richiami al Profeta e il voto per un governo di tecnici, senza un’impronta islamista, ma competente e neutrale. Tutt’altro è il discorso dei salafisti del quartiere popolare di Bab-al-Khadra, incondizionali della sharia. I salafisti non sono molti, ma sono attivi, provocatori, e le loro bandiere nere emergono indisturbate nelle manifestazioni di Ennahda. Questo inquieta l’opposizione. Tanti episodi giustificano i timori. Quando un tribunale condanna a sette anni e mezzo due giovani (Jabeur Mezri e Ghazi Béji) per avere diffuso caricature di Maometto su Facebook, con la motivazione di attentato alla morale, diffamazione e minaccia all’ordine pubblico, viene spontaneo pensare che gli islamisti di Ennahda, la cui influenza sulla giustizia è forte, non si siano liberati dei vecchi demoni, oppure che si adeguino a quelli dei salafisti. La cronaca è ricca di episodi di intolleranza.
All’Assemblea costituente, impegnata a completare la in tempo per consentire le elezioni entro l’anno, si sarebbe creato un formale consenso: il preambolo della nuova Costituzione, in cui si proclama (come nella vecchia versione) la Tunisia «un paese arabo e musulmano» soddisferebbe tutti. La tentazione di inserire alcuni principi della sharia non si è tuttavia spenta. «Sono abili, si infiltrano dappertutto, prolungano le discussioni all ’Assem blea costituente qualche loro principio, in favore della legge coranica». Questo dice un’alta funzionaria spiegandomi come gli islamisti cerchino di controllare l’amministrazione statale. Hanno nominato i governatori delle varie province, ossia i prefetti, ma i funzionari stentano ad accettare la loro autorità , resistono, a volte disubbidiscono. Anche la polizia non si sarebbe sottomessa del tutto. E l’esercito, cui è affidato il controllo delle frontiere, si tiene in disparte.
Le donne hanno un ruolo enorme. L’evoluzione dei costumi nelle strutture familiari, e quindi nella società in generale, dipende in larga parte dalla condizione femminile e dalle leggi che la determinano, ed anche dalla rivoluzione sessuale, segreta ma con un forte impatto. Su questo terreno (e non solo su questo) la Tunisia è stato un paese d’avanguardia. È stato un pioniere della modernità con scarso seguito nel mondo arabo. Il 13 agosto 1956, prima ancora dell’indipendenza ufficiale e prima del varo della Costituzione, Habib Bourghiba, presidente- fondatore della Repubblica tunisina, ha promulgato un Codice di statuto personale (Csp) in cui si dichiarava l’uguaglianza tra uomini e donne. E tre anni dopo ha riconosciuto il diritto al voto delle donne, e via via il libero accesso alla contraccezione e poi all’aborto. Prima ancora che quest’ultimo fosse autorizzato in tanti paesi europei (ad esempio in Italia e in Francia). Oggi il Codice di Bourghiba non è apertamente messo in discussione. È una frontiera che nessuno osa per ora sfondare. I salafiti lo condannano, ma il loro peso politico è marginale. Anche se con le intemperanze verbali e la azioni violente, accompagnate dalle dichiarazioni del Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, alimentano l’incubo degli islamisti sotto il letto.
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