Diario indiano

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Odori di spezie, profumi, aria inquinata, sentori di un’umanità  che vive e combatte e non si ferma a guardarti. La vita con i suoi ritmi e il suo perpetuo movimento. Una vita strappata coi denti.
Stavolta sono sbarcato di notte. Niente odori. Un aeroporto pulito, efficiente. Per arrivare al posto di polizia ho camminato a lungo. Corridoi infiniti, pavimenti coperti da una brutta moquette. Mentre cammino sono ossessionato dalle immagini del film di Kathryn Bigelow visto a Parigi poco prima di partire. La caccia a Osama Bin Laden, nemico numero uno degli Usa (e del mondo). L’America si vendica. Perché mi viene in mente questo film?
Ogni volta che penso all’India, ricordo la tragedia di Bhopal, nel 1984, quando un gas letale fuoriuscì dalla fabbrica di pesticidi americana Union Carbide, causando nei primi tre giorni ottomila morti, definiti da qualcuno «i più fortunati». La criminale negligenza di Warren Anderson, proprietario dello stabilimento, fece in tutto ventimila vittime, più oltre mezzo milione di esseri umani contaminati. Quell’uomo si è dato alla fuga, e non è ancora stato arrestato. Ripenso a quella catastrofe e al film della Bigelow perché leggendo un articolo di Arundhati Roy, autrice del romanzo Il dio delle piccole cose, sono stato colpito da una frase: «A una manifestazione in memoria di questi morti, una donna che aveva perduto tutta la sua famiglia portava un cartello con la scritta: “Voi che cercate Osama, dateci Warren Anderson”».
Il fascino dell’ingorgo A Jaipur ha luogo uno dei più importanti festival letterari del mondo. La città  è a duecentocinquanta chilometri da New Delhi: sei ore di viaggio. La prima cosa che noto, al confronto con la mia precedente visita, è il gran numero di auto private: gli indiani hanno scoperto il fascino dell’ingorgo. La seconda cosa è che l’inglese è sempre più diffuso. In India lo si parla più che in qualunque altra parte del mondo, anche perché serve come veicolo di comunicazione tra le diverse etnie, ventotto delle quali riconosciute. Costruzioni caotiche, casette, abitazioni di fortuna. Chiasso incessante: clacson, motori. Noto che alcuni pali della luce datano da prima della guerra: fili penzolanti, o abbandonati sul ciglio della strada. Pochi campi verdi. Qua e là  ponti incompiuti, costruzioni abbandonate, edifici vuoti tra cumuli di immondizia a cielo aperto. Due superbi elefanti addobbati procedono nella stessa direzione delle auto. Alcune mucche sembrano annoiate.
Vigilia del Mulud, anniversario della nascita di Maometto: la vendita di alcolici è vietata per due giorni. È il Dry Day, generalmente accettato come segno di rispetto per i musulmani dell’India (centotrenta milioni circa: il tredici per cento della popolazione). Questo però non vuol dire che l’islam sia visto di buon occhio. Vi sono stati attacchi di musulmani nella regione di Assam, ma anche a Bombay e a Jaipur.
Visito il centro storico di Jaipur in compagnia di Romain, un amico francese che parla perfettamente l’indi. Il nostro autista si chiama Shankar. È religioso. Quando Romain mi presenta qualificandomi come scrittore gli chiede: «Cos’è che vuol fare capire alla gente con i suoi scritti?». Una domanda pertinente. Gli rispondo: «Parlo della soliaccade tudine: quella di ciascuno e di tutti noi».
Lo stupro e l’omicidio di una ragazza ventitreenne, avvenuta il 16 dicembre, ha provocato un’immensa ondata di indignazione, tanto che le forze riformiste e femministe sono riuscite a farsi ascoltare. La condizione delle donne è drammatica. Poiché in questo caso la vittima era una studentessa in medicina, il ceto medio si è identificato con lei e ha fatto esplodere lo scandalo. Purtroppo, nelle campagne e tra le fasce di popolazione più povere i casi di ragazze maltrattate e stuprate sono numerosissimi.
Gli indiani si adeguano facilmente al sistema delle caste e delle disuguaglianze, che a volte assumono un carattere schiavista. Shankar mi ha detto: «Vor-
remmo essere moderni, ma non come in Occidente». Il razzismo esiste, e lo dimostra la mania delle donne di schiarirsi la pelle. Spendono molti soldi per somigliare alle bianche.
A Jaipur, i matrimoni sono in maggioranza ancora combinati tra le famiglie. La sposa è tenuta a dare una dote (oro, argento o un’auto), e col matrimonio rompe ogni legame con la famiglia d’origine per sottomettersi a quella del marito. Se disgraziatamente rimarrà  vedova, sarà  respinta da tutti. Esiste un ospizio per le vedove. Gli infanticidi delle neonate sono ancora frequenti, e lo Stato fatica a impedirli. La legge vieta ai medici di rivelare il sesso degli embrioni, per evitare che davanti alla prospettiva di una femmina la coppia ricorra all’aborto. Ma il problema oggi più preoccupante è quello degli infanticidi: a volte che una donna, dopo aver dato alla luce una figlia, se ne sbarazzi col consenso di tutti.
Scandalo al Literature Festival Jaipur conta molto sul turismo. Ma la povertà  è visibile. L’immondizia abbandonata ai margini delle strade attira cani e maiali affamati. Un gruppo di mendicanti è radunato davanti a una trattoria. Romain mi aveva detto: «Andiamo al Médina Hotel, è il migliore». Ma la mancanza di igiene mi sconvolge. Gli odori delle spezie mi danno la nausea. Mangio un piatto di crespelle
naan,
il muezzin chiama alla preghiera.
Shankar ci invita a prendere il tè a casa sua. Accanto alla porta d’ingresso della casetta verde, sono legate alcune mucche smagrite. Qui abita l’intera famiglia: i genitori e i fratelli con le mogli e i bambini. Saliamo in terrazza. Una ragazzina sta mangiando, seduta a terra. C’è un topo che passeggia. Shankar e i suoi fratelli masticano il
paan, un’erba fortemente speziata. Il tè, tassativamente al latte, è molto zuccherato e speziato. Shankar mi presenta come «l’uomo che parla della solitudine». E aggiunge: «Siamo tutti fratelli: gli uomini sono come i fiori: alcuni rossi, altri bianchi, altri ancora gialli…».
Scandalo al Jaipur Literature Festival: durante un dibattito il sociologo Ashis Nandy dice che la corruzione si è estesa alla casta dei Dalit (gli intoccabili, all’ultimo gradino della scala sociale). Proteste sulla stampa e arresto di Nandy. La democrazia indiana non transige sulle questioni di principio. La libertà  d’espressione rivendicata dall’oratore non consente la diffamazione. Eppure il tema della corruzione non è tabù. È un flagello che dilaga ovunque. Se in India la crescita è del cinque per cento, è anche perché questo Paese chiude gli occhi su talune pratiche.
Con gli studenti di Chandigarh La città  è stata concepita e disegnata da Le Corbusier. Fu Nehru a chiedere all’architetto di costruire questa città , divenuta la capitale del Punjab.
Sensodisolitudineemalessere.L’immensa folla di gente povera che lavora senza sosta, la città  imbiancata di polvere, le strade sventrate dai lavori: tutto questo mi dà  l’impressione di essermi perso in un mondo dove non ho alcun controllo. L’inglese rudimentale parlato dalla gente mi è incomprensibile. Alcuni studenti mi conducono a visitare i siti turistici. Dapprima l’immenso lago poiilRockGardenconcepitodall’artista Nek Chand dopo la partizione del 1947: sconvolto alla vista della massa sterminata di macerie dopo le distruzioni, decise di recuperarle e riutilizzarle. Un giardino di pietre, di rocce, di oggetti quotidiani riciclati come opere d’arte: muri fatti di prese elettriche in plastica e frammenti di porcellana, statuette di danzatrici o animali.
Alcuni studenti mi propongono un dibattito sulla società  indiana: le caste, i matrimoni combinati e gli infanticidi. Le caste esistono tuttora, ma lo Stato fa di tutto per superare le discriminazioni. Aishwarya, 22 anni, che ha concluso da poco i suoi studi, mi dice: «La democrazia fa quello che può, ma per cambiare le mentalità  ci vuole tempo».
Il cielo bianco sopra New Delhi Il viaggio di ritorno a New Delhi è interminabile. Ovunque cantieri, lavori in corso. Già  a cinquanta chilometri dalla città  il cielo si fa bianco. Non è nebbia, ma qualcosa di peggio: una densa nube di inquinamento. L’acqua potabile scarseggia. Colline di immondizie sono abbandonate alle incursioni di uccelli neri e altri animali. Le autovetture in circolazione sono in massima parte giapponesi; le altre provengono dal gruppo industriale indiano di Ratan Tata. Ho visto una Renault! Ma non una sola Fiat, e neppure una Volkswagen.
Lo sviluppo dell’India procede a ritmo sostenuto. Rispetto al mio primo viaggio noto che non c’è più gente addormentata sui marciapiedi.
Un Paese immenso, una popolazione che rivaleggia con quella della Cina. Il protezionismo economico non lascia molti spazi all’importazione. I prodotti importati sono gravati da tasse iperboliche, scoraggianti per tutti. L’indiano è nazionalista e suscettibile; è raffinato e legato alla spiritualità ; moderno, ma affezionato alle tradizioni, comprese le più anacronistiche. Di fatto, è difficile definirlo. Meglio andare a vedere di persona. E soprattutto, alla fine, non giudicare.
(traduzione di Elisabetta Horvat)


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