Tasse, l’Ocse contro le multinazionali
MILANO — Alcune multinazionali riescono a pagare soltanto il 5% al fisco, grazie a strategie fiscali aggressive e con la complicità dei paradisi fiscali che, in questo modo, ricevono più investimenti diretti stranieri (Fdi) di molti grandi Paesi industrializzati, denuncia l’Ocse in uno studio commissionato dal G20. Servono «soluzioni globali» per evitare che i sistemi fiscali favoriscono indebitamente le aziende multinazionali, lasciando pagare a cittadini e piccole aziende il conto (fiscale) più pesante.
«Queste strategie, sebbene legali, erodono la base fiscale di molti Paesi e minacciano la stabilità del sistema fiscale internazionale», sostiene Angel Gurria, segretario generale dell’Organizzazione che riunisce 34 Paesi avanzati.
Molte delle regole fiscali esistenti, che in teoria dovrebbero proteggere le società multinazionali da una doppia imposizione, «troppo spesso permettono loro di non pagare affatto le tasse», denuncia lo studio dell’Ocse. Queste regole non riflettono più correttamente l’integrazione economica globale, il valore della proprietà intellettuale o le nuove tecnologia della comunicazione. E le lacune, che consentono alle multinazionali di eliminare o ridurre la tassazione sui loro redditi, finiscono soltanto per dar loro un vantaggio competitivo sleale rispetto alle piccole aziende. Con conseguenze deleterie, perché fanno male agli investimenti, alla crescita e all’occupazione.
Come si fa a eludere legalmente le tasse? Negli ultimi 10 anni le pratiche per ridurne il peso sono diventate più aggressive, ricorda l’Ocse, e fa alcuni esempi. Alcune multinazionali con sede in regimi ad alta pressione fiscale creano molte filiali off-shore o scatole vuote, sfruttando ogni volta i benefici fiscali permessi in quella giurisdizione. Non solo, grazie a una sorta di «ottimizzazione fiscale», presentano spese e perdite nei Paesi a forte pressione fiscale, mentre dichiarano i profitti là dove la tassazione è bassa o inesistente.
Lo studio dell’Ocse sferra un attacco pesante anche contro la complicità dei paradisi fiscali, che spesso traggono benefici indebiti da questa situazione. Dallo studio emerge, ad esempio, che nel 2010 le Barbados, Bermuda e le Isole Vergini britanniche hanno ricevuto più Fdi (il 5,1% del totale mondiale) della Germania (4,7%) o del Giappone e nello stesso periodo i tra Paesi del Caraibi hanno fatto anche più investimenti nel mondo della Germania.
La soluzione? Il rapporto non suggerisce un’aliquota ideale, perché spetta ai Paesi decidere, spiega. Ma anticipa un «Piano d’Azione», sviluppato insieme ai governi e alla comunità degli affari. Di sicuro, in futuro, servirà più cooperazione tra i Paesi per trovare un terreno comune anche su un tema spinoso come quello fiscale. La missione, però, non è impossibile. E si può procedere a maggioranza. Il ghiaccio in fondo è stato già rotto quando di recente 11 Paesi Ue hanno adottato, per la prima volta non all’unanimità , la tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin tax.
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