Francoforte ha le armi spuntate contro lo strapotere della Fed
NEW YORK — Non cercheremo di manipolare le parità di cambio, i rapporti tra le valute devono essere decisi dai mercati. Queste sono le affermazioni che i ministri economici del G7 hanno messo in un comunicato, per cercare di smentire che sia in atto una “guerra delle monete”. Di fatto, però, i mercati non sembrano prendere sul serio la smentita. L’euro continua a muoversi ai massimi livelli degli ultimi 15 mesi sul dollaro (ieri a quota 1,34), e ai massimi sullo yen giapponese da tre anni. Vuol dire che gli investitori ritengono l’economia europea più solida di quella americana o giapponese? In realtà i mercati hanno imparato da tempo a considerare con scetticismo le dichiarazioni ufficiali del G7 o del G20. In quanto alle economie reali: la ripresa in Europa tarda ad arrivare, mentre la crescita Usa procede da due anni. Di fronte a un simile divario, la politica monetaria americana dovrebbe essere più restrittiva di quella europea. Invece è vero il contrario. La Federal Reserve pratica il tasso zero, mentre quello della Bce pur essendo basso è positivo (0,75%). A questo costo del denaro nullo, la banca centrale americana aggiunge un promessa esplicita: non alzerà i tassi fino a quando la disoccupazione Usa non scende dal 7,9% attuale al 6,5%. E come non bastasse, la Fed stampa moneta vigorosamente: 85 miliardi di dollari al mese, che usa per comprare titoli pubblici e semipubblici (obbligazioni degli istituti di credito immobiliare) il che crea liquidità abbondante e credito facile. Il Giappone si è adeguato, con la banca centrale che addirittura si impone un obiettivo definito di “creazione d’inflazione”. Dollaro e yen reagiscono di conseguenza: i mercati si lasciano guidare da quello che le banche centrali fanno, più che dai comunicati del G7. Gli investitori
vedono due banche centrali aggressive nello stampar moneta; capiscono che Tokyo e Washington malgrado le smentite ufficiali perseguono le svalutazioni competitive. Quindi i capitali abbandonano le monete deprezzate e rifluiscono sull’euro.
Così facendo, però, i mercati rendono ancora più difficile la ripresa nell’eurozona. O per essere più precisi: in mezza eurozona. Come ha dimostrato la settimana scorsa un importante studio di Morgan Stanley, la divaricazione dell’eurozona in termini di competitività è impressionante. La Germania è in grado di conquistare i mercati mondiali non solo con l’euro così com’è (forte) adesso; ma sarebbe competitiva perfino se l’euro salisse ancora, fino a quota 1,53 sul dollaro. Nell’altra Europa, c’è la Francia che arranca perché la sua industria ha bisogno di una parità a 1,26 per farcela. L’Italia sta ancora peggio, ci vuole un cambio a 1,19 sul dollaro per rimettere i nostri esportatori pienamente in gioco sui mercati mondiali. I mercati non ci aiutano, dunque. Nonostante tutti i fattori di debolezza europei — da ultimo le incertezze elettorali italiane, gli scandali per corruzione in Spagna, perfino la piccola Cipro che ha bisogno di un salvataggio — alla fine contano di più i comportamenti
delle banche centrali.
Mario Draghi ha provato a moderare l’eccessiva forza dell’euro, indicando che essa merita l’attenzione della Bce. Ma il suo combattimento con la Federal Reserve e la Banca del Giappone non è ad armi pari. La Fed ha un grosso vantaggio di partenza, che si aggiunge al “privilegio imperiale” di chi emette la moneta della nazione leader. Il suo vantaggio è istituzionale: nel mandato della Fed è esplicitamente indicato al primo posto tra i suoi compiti “promuovere attivamente il pieno impiego”. Nulla di simile c’è nello statuto della Bce, che ricalca quello della Bundesbank tedesca, ed ha come unico compito la stabilità dei prezzi. Perfino la piccole Banca centrale svizzera, ricorda il suo ex governatore Philipp Hildebrand sul Financial Times, impose la sua volontà ai mercati quando annunciò che avrebbe stampato franchi a oltranza pur d’impedirne la sopravvalutazione. E’ un gesto che la Bce non può fare. A meno di interpretare elasticamente i propri statuti, sfidando l’ortodossia tedesca.
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LA CRISI IN ASIA.
PECHINO. Quello di ieri per i listini asiatici è stato un venerdì nero. Una giornata di passione che ha visto perdite da un minimo del 2,15%, a Shanghai, fino al 5,58% di Taipei. Ribassi pesanti a Tokyo (-3,7%) dove hanno accusato flessioni le azioni di importanti esportatori come Sony, Toyota motor e Pioneer.