War games
HERAT. La figura umana con la pala, che si muove sullo schermo, ignara dell’occhio elettronico che la sorveglia da ottomila metri, attira l’attenzione: sarà una minaccia? Dalla sua postazione di Camp Arena, sotto la luce azzurra dei neon, Fabio pilota il Predator, centinaia di chilometri più in là , perché l’angolo di ripresa sia più favorevole. Accanto a lui il “system operator” manovra le telecamere in modo da avere più dettagli. Sulla terza poltroncina, il “mission monitor” comunica con il comando. Accanto, il tecnico bada a motore e parti meccaniche del drone. L’afgano inquadrato dalla telecamera a raggi infrarossi lavora sulla strada: forse sta piazzando una bomba artigianale.
Oppure è solo un disoccupato che cerca una mancia dagli automobilisti riempiendo di ghiaia le buche, come fanno in tanti. Sopra di lui, il Predator viaggia silenzioso e invisibile: va a velocità ridotta, non più di 130 chilometri l’ora, per avere miglior qualità d’immagine. Nella stanza accanto ai piloti, gli analisti della Task Force “Astore” esaminano riprese e dati per fornirne un’interpretazione utilizzabile nel tempo più breve possibile. Non c’è urgenza: l’intera missione Isaf è già stata avvertita, i convogli militari diretti sulla strada interessata non avranno sorprese, gli artificieri partiranno tranquilli nelle prossime ore.
Poi gli analisti individuano nelle immagini spedite a terra un oggetto interessante, sulla cima di un monte. Il Predator ritorna a filmare e subito arriva la conferma: è un’antenna alimentata con pannelli solari. Fa parte di un rudimentale ma efficace sistema di comunicazione dei Taliban. Mentre Fabio fa ripassare ancora una volta il drone, per accertarsi che nella zona non ci siano civili, arrivano i caccia Amx. Due passaggi di bombardamento e l’antenna svanisce in una nuvola di fumo, schegge e sassi.
E’ la guerra del terzo millennio: in futuro vedremo sempre meno caccia con esseri umani a bordo, e più macchine da combattimento autonome, con prestazioni da fantascienza. In Afghanistan i droni dell’Isaf sono indispensabili per la sorveglianza, di recente le truppe britanniche ne hanno schierato un modello grande quanto una matita e dunque quasi invisibile. In Pakistan e nello Yemen gli americani schierano droni armati di missili, per decimare i comandanti di Al Qaeda.
Ma attenzione, c’è solo un modo per mettere Fabio di malumore: basta dirgli che il “suo” Predator è un aereo “senza pilota”. Eccome se c’è il pilota: è lui, un top gun diplomato, che potrebbe passare già domani nel cockpit di un caccia Amx o Eurofighter, ma non ha nessuna fretta. Perché dietro i sistemi a comando remoto serve chi ha esperienza di volo, anzi, serve una squadra intera. «Sono solo un direttore d’orchestra », dice Fabio.
I piloti ben addestrati sono risorse troppo preziose per essere messe a rischio, meglio “spendere” macchine che non hanno necessità di riposo, né di bombole d’ossigeno e seggiolino eiettabile. E in caso di abbattimento non lasciano una famiglia in angoscia. Hollywood lo ha capito subito: i superuomini di “Top Gun” passano in archivio e lasciano il posto ai droni armati di “The Bourne Legacy”.
Gli UAV italiani non montano missili: i due schierati in Afghanistan sono Predator “A”, disarmati. L’Aeronautica ha anche il modello “B”, dotato di maggiore autonomia, e il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola sogna di munirlo di missili, se il Congresso di Washington, che ha l’ultima parola sul commercio di armamenti di produzione statunitense, glielo consentirà . Per ora, comunque, la differenza fondamentale fra Usa e Italia è proprio qui. I piloti americani governano macchine micidiali da una caserma in Nevada: la stampa Usa li ha descritti mentre mandano la morte con il joystick, come in un videogame, fra un cheeseburger e un sorso di Coca Cola. E per questa “disinvoltura” sono al centro di una polemica sulla guerra “disumanizzata”. Qualcuno si è persino dimesso, dopo aver ucciso da lontano civili innocenti. Gli italiani invece sono sul teatro: sorvegliano, seguono le operazioni di terra, tutt’al più usano i sistemi di puntamento laser per indicare gli obiettivi ai caccia. Ma il personale è al fronte, concentrato sulla missione. «Noi usciamo dalla stanza, e fuori c’è l’Afghanistan », sintetizza il pilota.
Davanti agli schermi, Fabio fa turni brevi: a meno di casi particolari riceve il cambio ogni due ore. “Vede” con la telecamera anteriore, governa il velivolo con una cloche e un sistema di manetta-motore come su un jet. L’esperienza di volo “reale” è indispensabile per decolli e atterraggi, tanto che persino le Forze armate Usa hanno schierato in Afghanistan piloti addetti solo a partenze e arrivi, mentre le missioni sono comandate dalla madrepatria. Spiega Fabio: «Per decolli e soprattutto atterraggi, serve l’immediatezza assoluta. La guida remota si fa per trasmissione satellitare, con un ritardo di qualche secondo. Va bene per le operazioni in volo, ma per partenza e rientro si usa un sistema con antenne a comunicazione diretta».
La differenza fondamentale fra il seggiolino di un F-16 e la postazione di un Predator «è la mancanza di sensazioni fisiche », dice Fabio. Insomma, il pilota di un drone non può fare quello che in Aeronautica chiamano più o meno «volare con il fondo schiena». Ma la fatica è altrettanta: «Se le operazioni non sono routine, quando si alzano dalla poltroncina sono sudati fradici », racconta il colonnello Carlo Moscini, comandante della squadra di Herat. Dopo l’esperienza di Isaf, la Difesa valuta se schierarli in supporto alle operazioni occidentali nel Mali: «I Predator permettono una conoscenza precisa della situazione sul terreno, a sua volta garanzia del rispetto delle nostre regole di ingaggio, e quindi di tutela dei civili », commentava durante l’ultima visita in Afghanistan il capo di Stato maggiore uscente Biagio Abrate, «non è un caso se non provochiamo “danni collaterali”».
Quanto alle soddisfazioni, i piloti sottolineano: «Non ci mancano». Come qualche mese fa, quando un convoglio italiano è stato bersagliato con kalashnikov e lanciagranate in un villaggio del Gulistan, sulla Ring road. «I mezzi avanti sono stati danneggiati, gli altri non potevano passare», racconta il pilota: «I nostri erano bloccati dentro i mezzi blindati, non potevano nemmeno vedere da dove arrivavano i colpi. Noi abbiamo manovrato sul villaggio, abbiamo scoperto la collinetta da cui i Taliban attaccavano e abbiamo avvertito i colleghi a terra. Hanno potuto individuare gli autori dell’agguato, rispondere al fuoco e metterli in fuga. Quando i nostri sono tornati nella base, la prima cosa che hanno fatto è stata venire a ringraziarci e offrirci da bere».
Related Articles
La Turchia allontana Baghdad da Erbil
Iraq/Siria. Sul piatto non c’è solo l’aggressione al Pkk, ma il greggio conteso e la rete di alleanze regionali. In Siria, Damasco respinge attacco ad Aleppo, al Nusra caccia l’Esercito Libero
Iraq, camion bomba contro la scuola Strage di bambini
Non fosse perché è entrato nella scuola elementare d’un piccolo villaggio del Nord e con un camion-bomba ha fatto esplodere l’intero edificio e ha ucciso quattordici bambini fra i 6 e i 12 anni, l’ultimo kamikaze non sarebbe nemmeno una notizia: solo nel finesettimana, in Iraq, ci sono stati almeno sette attentati e un’ottantina di morti (ma potremmo sbagliarci per difetto).
La guerra dei droni (7)