COSàŒ ALL’ESTERO LI COCCOLANO

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Anni fa partecipai a un incontro con giovani aspiranti a un dottorato della New York University. Per riunire i candidati, un collega li aveva invitati a pranzo nel
faculty club in cima alla magnifica Bobst Library su Washington Square. Gli chiesi come mai un incontro del genere si tenesse in un ristorante. Mi spiegò che era interesse dell’università  far buona impressione e ottenere che al dottorato si associassero i giovani migliori. Una storia del genere è inimmaginabile in Italia, dove non a caso gli studenti si allontanano silenziosamente dall’università , particolarmente da due ambiti: le umanità  e le scienze. Il fenomeno in verità  colpisce tutta l’Europa, ma ovviamente in Italia è più spiccato perché da noi alla crisi epocale di quei due ambiti si somma il fatto che nessuna università  (salvo poche eccezioni) prende davvero a cuore i giovani che la frequentano (e finanziano). Non soltanto nessuno li invita a pranzo per far colpo, ma più in generale nessuno si cura davvero di loro. In nessuno dei passaggi chiave (orientamento, accoglienza, tutoraggio, instradamento al lavoro) la nostra università  fa quel che deve. Quest’indifferenza verso i principali
stakeholder dell’istituzione si osserva in una quantità  di forme strutturali, in termini ancora più pesanti se si fa riferimento ai dottorandi, che sono per lo più del tutto abbandonati a sé stessi.
All’ingresso, per esempio. Prima dell’università , nessuno si preoccupa di riconoscere la vocazione del singolo. Ciò è alla base delle molte scelte sbagliate e dei moltissimi abbandoni nel primo anno. Non c’è invece paese d’Europa (almeno nell’ambito dell’Ue) in cui manchi una verifica delle predisposizioni. In diversi paesi è possibile anche cambiare indirizzo una volta riconosciuto l’errore della scelta. Inoltre, i paesi avanzati (Francia, Germania, Regno Unito, Olanda) hanno piani di borse internazionali per permettere ai giovani di sostenersi. In Italia il fondo per le borse di studio tra 2009 e 2011 si è tanto contratto che gli studenti con borsa sono passati dall’84 al 75 per cento degli aventi diritto.
La stessa indifferenza riguarda la vita quotidiana. Le maggiori università  italiane (a partire dalla colossale Sapienza) dispongono di residenze solo per una quota insignificante di studenti. Chi non rientra si arrangia come può, cadendo nella trappola degli affitti in nero. In numerosi Paesi d’Europa (specialmente del nord, per non parlare del mondo anglosassone) le residenze sono uno dei fiori all’occhiello degli atenei. In Germania gli Studentenheime sono una tradizione antica; in Svezia, le regioni d’origine degli studenti finanziano le cosiddette Nationen, case, spesso bellissime, in cui risiedono ragazzi provenienti dallo stesso posto; in Spagna, immobili storici restaurati ospitano studenti e professori in visita. È raro che un’università  sia priva di mense, di impianti sportivi e di centri e iniziative per la vita collettiva.
Durante gli studi, poi, i giovani sono esposti al fatale rischio di disperdersi: lasciati a sé stessi, per lo più invisibili ai docenti e all’istituzione, possono cominciare ad andar male, smettere di dare esami e trasformarsi in fuori corso (specialità  italiana). Non per caso il 33 per cento dei nostri iscritti finiscono fuori corso. Ho trovato in Francia e in Spagna soluzioni intelligenti a questo problema. Quando uno studente è in ritardo, viene identificato elettronicamente e invitato a un colloquio con persone esperte che cercano di capire che problema lo ha inceppato. Infine, la maggior parte dei sistemi universitari europei (e gli atenei americani importanti) mediano la temibile transizione di laureati e dottori di ricerca verso il mondo del lavoro mediante uffici di job placement.
In Italia è stato importato il termine, non il concetto e il metodo.


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