E per il premier spunta l’ipotesi Senato

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ROMA — Il pressing delle cancellerie internazionali, le preoccupazioni per l’andamento dello spread e anche i timori di un sorpasso del Cavaliere sono solo alibi, espedienti da campagna elettorale dietro cui Bersani e Monti devono celare l’inevitabile intesa dopo il voto. Un’intesa necessitata. Ed è vero quanto sostiene il Professore, e cioè che «non c’è oggi nessun accordo tra noi e il Pd», così come è vero che il leader democratico a Berlino non ha detto nessuna novità , ma ha solo ribadito le aperture di credito che avanza ormai da un mese ai centristi. Il punto è che i due, all’indomani delle elezioni, saranno costretti a un patto dettato da ragioni politiche e numeriche, se è vero che — fuori da questo schema — non si intravvedono in prospettiva altre maggioranze in Parlamento.
I giochi però non sono fatti, almeno non del tutto. Perché le urne incideranno sugli equilibri e gli assetti di governo, serviranno a stabilire i rapporti di forza tra le coalizioni. Un conto è se il segretario del Pd sarà  obbligato all’alleanza con Monti per non essere riuscito a ottenere l’autosufficienza al Senato, altra cosa è se — pur avendo i numeri — proporrà  al Professore un patto di programma. Un punto comunque è chiaro fin da ora: si tratterà  di un governo di sinistra-centro, dove il primato spetterà  ai Democratici. È un fattore determinante, che segnerà  la rotta nelle trattative per la formazione del futuro esecutivo.
Nei due schieramenti hanno ben presente quale sarà  lo schema, non a caso già  se ne discute. A Monti, Bersani offrirà  «la prima scelta», avvertendo che alcune opzioni saranno precluse. Il ministero dell’Economia, per esempio. C’è un motivo se il segretario del Pd nelle scorse settimane ha avvisato che «o c’è un rapporto fiduciario con il titolare di quel dicastero o è meglio spacchettare»: se approdasse a palazzo Chigi, Bersani non potrebbe far passare l’idea in Italia e all’estero di esser stato posto sotto tutela, quasi commissariato. Di sicuro non accetterebbe una presenza così ingombrante, con il rischio di riproporre il dualismo che caratterizzò la stagione di Berlusconi e Tremonti.
Il veto preventivo di Vendola, «Monti potrà  essere il ministro dell’Economia per Berlusconi», tornerà  utile al Pd all’atto delle trattative, quando anche un’altra casella verrà  data per «occupata»: quella degli Esteri, con D’Alema. Sugli asset più importanti dell’esecutivo i Democratici non sono intenzionati a cedere. Così, sebbene ieri il Professore abbia detto di non escludere la sua presenza «in un governo riformista», è poco probabile che l’ipotesi si concretizzerà . Almeno, questa è la previsione di molti autorevoli esponenti del Pd e dello stesso Casini, che nei suoi conversari riservati ha ammesso di vedere «Monti proiettato verso la presidenza del Senato». E siccome al capo della sua coalizione spetta la «prima scelta», il leader dell’Udc già  medita se sia opportuno puntare a un incarico di governo «come la Difesa».
Un simile scenario inevitabilmente si proietterebbe anche sui rapporti della maggioranza con l’opposizione, cioè con il Pdl, che chiederebbe la presidenza di un ramo del Parlamento, ben sapendo che dal ’94 ad oggi la coalizione vincente ha sempre tenuto per sé quelle cariche. Di più, qualora Monti il 15 marzo dovesse occupare lo scranno più alto di palazzo Madama, a un mese dalla corsa per il Quirinale si proporrebbe come potenziale candidato alla successione di Napolitano. Insomma, «l’intesa necessitata» non sarà  stata ancora sottoscritta, ma c’è un motivo se già  i protagonisti si preparano all’evento e studiano le varie opzioni.
Resta un dettaglio, il risultato delle urne, che assegnerà  la forza contrattuale nelle trattative. E su questo punto regna l’incertezza. Perché nel Pd non sanno ancora se conquisteranno «157 o 138 seggi al Senato», che è come passare dal giorno alla notte. E lo stesso discorso viene fatto per i numeri di Monti che «ballano tra il 9 e il 14%». Casini — come a volersi levare un sassolino dalle scarpe — ieri è stato tagliente con il Professore: «L’Udc darà  il suo contributo all’alleanza, ma tra il 10 e il 14% c’è una fondamentale differenza…».
Per i Democratici questo segnale rafforza la tesi sulla gracilità  del rassemblement montiano, sostenuta tempo fa da Bersani: «Più che una coalizione sembra un taxi». E i dubbi nel Pd si estendono allo stesso Monti, ai suoi reali propositi personali: vorrà  restare in Italia o mira a incarichi europei? In quel caso che ne sarebbe dell’area centrista? In più, le iniziative mediatiche del Professore stanno irritando Bersani, perché quelle battute abrasive verso il Pd a cui seguono repentini ammiccamenti, «finiscono per fare il gioco di Berlusconi». Anche ieri Monti ha applicato lo stesso schema, ma provando a creare un cuneo tra i Democratici e Vendola ha innescato la reazione di D’Alema: «I partiti piccoli devono farsi notare».
Il fatto è che il Professore sta cercando di rilanciarsi nei sondaggi, siccome al Senato il futuro «governo di programma» — a dir poco eterogeneo — avrebbe bisogno almeno di trenta seggi di maggioranza per poter applicare lo schema delle «geometrie variabili», e garantirsi così eventuali voti distinti delle due estreme. L’impresa non è semplice. Come non bastasse, il Monti premier è atteso a una prova molto delicata: il vertice europeo sul bilancio dell’Unione. Non è solo Berlusconi che lo attende al varco, per denunciare «la resa alla Merkel del governo». Lo stesso Bersani è pronto ad affondare il colpo contro il futuro alleato. Anche a Bruxelles si fa campagna elettorale.


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