Il made in Italy e il freno supereuro

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MILANO — L’euro ieri è arrivato a quota 1,35 sul dollaro, in leggera frenata dopo la seduta di venerdì scorso quando aveva raggiunto il picco di 1,37 (ai massimi da fine 2011 sul biglietto verde) grazie all’ottimismo innescato dalla speranza di un miglioramento della congiuntura europea (speranza alimentata dalla crescita dell’indice manifatturiero, Pmi, degli acquisti di gennaio). Nonostante la frenata di ieri, però, la moneta unica resta in apprezzamento di circa il 3% sul dollaro da inizio anno. Mettendo sotto pressione l’export delle aziende italiane, unico motore di crescita in un 2012 che ha visto la domanda interna affondare sotto i colpi dell’austerità . E l’improvvisa fiammata del cambio (in sei mesi l’euro ha guadagnato l’11% sul dollaro e il 31% sullo yen) coinvolge proprio gli Stati Uniti, mercato di sbocco fondamentale del 2012, in grado di incrementare gli acquisti del made in Italy del 16,8%.
«Un problemone, perché oggi l’Italia che funziona è quella che esporta» sottolinea il banchiere imprenditore Gianni Zonin, a capo dell’azienda di famiglia che da due secoli risiede e produce vino a Gambellara (Vicenza) e nelle altre 12 tenute sparse in tutta Italia (ma anche in Virginia, Usa, a Barboursville). «Aziende come la nostra che esporta il 70% del fatturato viene penalizzata in modo pesante dal rafforzamento dell’euro — spiega il presidente Zonin —. E purtroppo non riceviamo nessun aiuto nel cambio, anzi siamo di fronte a una grande disattenzione da parte della politica, troppo impegnata a fare campagna elettorale». E mentre gli Stati Uniti, ma anche il Giappone e la Cina hanno portato avanti una strategia di espansione monetaria con immissione di liquidità  sul mercato e stanno recuperando terreno, noi stiamo assistendo a una lenta decadenza dell’impresa italiana, lancia l’allarme l’imprenditore veneto. «Non abbiamo molto tempo, ci stiamo avvicinando al limite insuperabile». Il cambio corretto? «Tra 1,20 e 1,30, mentre se superasse 1,40 la situazione per le aziende diventerebbe gravissima». Il problema dunque è la politica monetaria.
La pensa allo stesso modo Claudio Luti, presidente di Kartell, la griffe dell’arredo industriale in plastica che esporta il 75% dei propri prodotti: «Senza una relazione diretta con la Banca centrale il nostro Paese subisce ogni oscillazione». Per salvare il mercato Usa, dove Kartell lavora direttamente con una filiale, il gruppo milanese fissa il listino in dollari «ma poi il problema rimbalza in Italia» al momento della riscossione e «in tutti i Paesi della zona euro dove lavoriamo con la moneta unica e dove i distributori ricorrono a un incremento dei prezzi». «Noi facciamo un prodotto industriale e non di lusso, per questo esercitiamo una forte politica di controllo sul prezzo finale con l’obiettivo di dare stabilità  al mercato e tranquillità  ai nostri clienti» spiega Luti convinto che «le due leve di comando» siano la politica industriale e quella monetaria affinché «tutti in Europa si operi alle stesse condizioni: ma questo è un lavoro che dovrebbe fare il governo». Gli imprenditori sostengono la necessità  di un controllo più attento sul cambio. «E di un’espansione monetaria equilibrata, non certo una svalutazione — aggiunge Zonin —. Basti pensare che il solo 5% dei circa 35 mila miliardi di euro circolante corrisponderebbe a 1500 miliardi di nuova moneta», una disponibilità  che farebbe bene alle banche che devono elargire crediti, alle aziende, all’occupazione. Ma questo è compito di Francoforte, dove però «la politica monetaria la decide un Paese solo», la Germania, grande sostenitrice dell’euro forte «o per la vecchia storia di Weimar o per danneggiare i concorrenti europei». Di due cose l’imprenditore vinicolo con la passione per le banche è certo, che l’Europa non possa fare una politica monetaria per conto proprio, «senza tener conto di quella americana, così come di quella dello yen e dello yuan» e che in casa europea sia necessaria un’alleanza forte con Francia e Spagna per rallentare lo strapotere della Germania.
Un altro settore molto preoccupato della nuova guerra delle valute è il sistema moda che in Italia conta oltre 2.000 imprese, piccole e medie aziende su cui il cambio pesa tantissimo. Sopportano meglio le oscillazioni delle valute i grandi marchi che puntano sulla esclusività  del lusso e non sulla competizione del prezzo. «L’euro forte non aiuta né Ferragamo né le aziende del made in Italy esportatrici — spiega il presidente Ferruccio Ferragamo — rendendo ancora meno competitivo il Paese Italia rispetto ai concorrenti». La maison fiorentina, così come la maggior parte dei big del lusso non si assume i rischi valutari, nel senso che i listini sono fissati alla presentazione della collezione quando vengono determinati gli ordini. Per cui la riscossione anche a distanza di sei-otto mesi è coperta dalle oscillazioni valutarie. Nemmeno Brunello Cucinelli al momento vede un pericolo cambi. E in ogni caso è pronto a difendere il proprio mercato (di cachemire di lusso) a colpi di «alta qualità  e di innovazione». «Lavoro molto sulla parte creativa — sottolinea il re del cachemire — perché è l’unica cosa che posso cambiare» E con la vena di ottimismo che lo contraddistingue dice: «Nel mondo c’è un grosso appeal per il lusso made in Italy».


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