IL MISTERO GRAMSCI

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Per Franco Lo Piparo, lo studioso lanciato sulle tracce di Gramsci, non vi sono più dubbi. È esistito un quaderno di 26 pagine, targhetta XXXII, poi scomparso. Bisognerebbe cercarlo tra le carte di Togliatti e Sraffa. Il suo contenuto? Non è dato saperlo. Forse riportava feroci critiche all’ex amico, forse l’abiura al comunismo
tout court.
L’unica cosa certa, si trattava di un materiale scottante, «di difficile digestione per una mente comunista di quegli anni». Bisognava tenerlo nascosto. Lontano dal Comintern. Secretato anche per i compagni italiani. Ne andava di mezzo il destino del partito. Ma il taccuino è esistito eccome, ribadisce Lo Piparo alla fine di una sua nuova investigazione sugli originali dei manoscritti gramsciani, confrontati con una riproduzione fotografica realizzata negli anni Quaranta e fin qui sconosciuta.
L’enigma del quaderno (pagg. 162, euro 18) è il titolo del suo nuovo saggio in uscita da Donzelli, ultima puntata di una spy-story che non accenna a chiudersi. Le critiche piovute sul suo precedente Gramsci e i due carceri, peraltro insignito del Viareggio, non sembrano averlo scoraggiato. Sono stato sbeffeggiato, dice l’autore, ma non importa, io vado avanti. E vi dimostrerò che ho ragione.
Davvero è in grado di dimostrarlo? Il libro esce ancor prima degli esiti definitivi della commissione promossa dall’Istituto Gramsci per far luce sul quaderno scomparso. Quasi volesse giocare d’anticipo, nell’eccitata contesa che divide la cittadella gramsciana. Per Lo Piparo — affiancato nell’impresa da Luciano Canfora — è tutto chiaro. I quaderni di contenuto storico-teorico-politico sono trenta e non ventinove, come invece risulta dalle diverse edizioni, e qualche mano abile ha sottratto un taccuino.
Il colpevole? La regia è attribuita a Togliatti — astutissimo stratega della pubblicazione dell’opera — ma il responsabile materiale del furto viene individuato nel suo complice Piero Sraffa, l’insigne economista citato da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche.
Secondo la ricostruzione di Lo Piparo, fu Sraffa a ingannare la povera Tania Schucht, la cognata incaricata dallo stesso Gramsci di porre in salvo i mano-scritti, destinandoli non ai compagni italiani ma alla moglie Giulia. Il trappolone scatta tra il 30 giugno e il 1 luglio del 1937 (Gramsci è morto in aprile). Il “compagno Piero” viene a Roma e chiede a Tania di portargli a casa tre dei quaderni che la donna andava affannosamente catalogando. Di questi tre taccuini, nessuno è restituito a Tania. Due però raggiungeranno gli altri quaderni intanto volati a Mosca (La filosofia di Benedetto Croce e Niccolò Machiavelli).
Il terzo, invece, rimarrà  nello scrigno segreto di Togliatti. Per sempre condannato all’oblio.
Perché proprio Sraffa nel ruolo del trafugatore? L’economista è persona informata dei fatti. Conosce i contenuti di quel taccuino, presumibilmente annotato durante il ricovero nella clinica Quisisana, tra l’agosto del 1935 e il 27 aprile del 1937. Il suo amico Antonio deve avergli detto qualcosa. Fu durante una di quelle conversazioni che Gramsci demolì la pratica dell’autoaccusa su cui si reggevano i processi staliniani. «Diceva che la confessione è un principio giuridico del Medioevo », riferirà  Sraffa ad Alfonso Leonetti. Sraffa sa che quel quaderno è troppo pericoloso. Non può finire nelle mani sbagliate. È necessario sottrarlo alla ignara Tania.
Fin qui il suggestivo racconto di Lo Piparo, non privo di un suo fascino romanzesco. Ventisei pagine finora segrete in cui Gramsci distrugge le fondamenta del comunismo sovietico: una golosità  per il lettore democratico di oggi. Ma come dimostrarlo? Con commovente acribia l’indagine porta alla luce tutta una serie di incongruenze nella catalogazione. Fa notare che su un quaderno privo dell’etichetta vergata da Tania ne è stata aggiunta un’altra, che lo studioso attribuisce “probabilmente” a Valentino Gerratana (targhetta XXXIII). Insiste sulla bizzarra circostanza che sotto un’etichetta che indica il numero XXIX ne figura un’altra con il numero XXXII. Passa in esame tutte le curiose discrepanze tra gli originali russi e le traduzioni italiane “ufficiali” (qui il bersaglio è soprattutto Giuseppe Vacca, accusato di aver tradotto un’indicazione precisa di Tania — «Sono in tutto XXX pezzi» — nell’espressione più vaga: «I quaderni saranno una trentina»). Richiama l’attenzione su un secondo quaderno dove Tania avrebbe continuato ad annotare l’indice dei Quaderni, anche questo scomparso. Si dà  da fare, Lo Piparo, nell’inanellare una serie di sparizioni, pagine strappate, singolari contraddizioni. Ma quest’affastellamento di indizi, frutto di una dedizione stupefacente, stenta a tradursi in prova filologica convincente.
Per andare avanti, il racconto necessita di quella che lo studioso definisce “phantasia logiké”, «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Un esercizio anche legittimo, che però è cosa diversa dalla ricostruzione storica,  fondata su fonti certe e non su congetture. Seguendo gli stessi indizi, si può approdare a risultati opposti. Ne è chiara dimostrazione proprio l’editore di Lo Piparo, Carmine Donzelli, antico cultore di Gramsci: in una sua recente pubblicazione fa morire il prigioniero da leninista duro e puro, e non da liberademocratico, come in fondo vorrebbe Lo Piparo. Senza poi trascurare il curioso effetto di straniamento che l’esercizio indiziario può produrre nel lettore. Prendiamo la lettera scritta da Tania a Sraffa il 7 luglio del ‘37, poco dopo il presunto “furto”. «Ieri ho consegnato i quaderni (tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», annota meticolosamente la cognata di Gramsci. Secondo lo studioso, l’inciso parentetico — (tutti quanti) — sarebbe un segnale di disappunto e sta a significare: ho eseguito l’ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e, naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che ti sei preso. Interpretazione abbastanza lunare, ma forse la “phantasia logiké” è un’arte che non ammette confini.
L’immaginazione galoppa anche sul versante delle etichette. Delusa e ferita da Sraffa, Tania avrebbe escogitato uno stratagemma da agente segreto — e Lo Piparo lascia intendere che ne conoscesse bene l’arte — per far capire a Giulia (la moglie destinataria degli scritti) che esistevano altri tre quaderni (quelli rubati da Sraffa). Cosa inventa Tania? Prende le etichette destinate ai tre quaderni rubati, già  scritte ma non ancora incollate sui libri portati a casa di Piero, e decide di utilizzarle comunque incollandole sugli ultimi tre quaderni che erano ancora senza etichetta. Poi sulle etichette “false” incolla quelle vere, con il numero delle pagine e con le descrizioni dei quaderni. Da qui Lo Piparo non esita a individuare in quel numero XXXII nascosto sotto l’etichetta XXIX l’inequivocabile cifra del quaderno mancante.
A fare le spese di questa nuova ricostruzione è principalmente Sraffa, ritratto con un profilo bifronte: da una parte astuto agente del Comintern (che però nasconde al Comintern la natura esplosiva dei Quaderni); dall’altra figlio d’una influente famiglia ben inserita nei gangli del potere fascista, che si adopera in mille modi per la scarcerazione del prigioniero. Un’immagine poco limpida, che sembra riacquistare l’antica luce solo quando Lo Piparo ritorna sul terreno che più padroneggia — la linguistica — e accenna agli interessantissimi intrecci tra le conversazioni con Gramsci e le conversazioni con Wittgenstein, di cui rinviene traccia negli ultimi scritti del filosofo austriaco. Ma è solo una parentesi purtroppo, subito chiusa perché estranea all’indagine in corso. Che – promette (o minaccia) l’autore – non mancherà  di darci presto nuove sorprese.

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LA REPLICA DI VACCA “UN’IPOTESI CHE SEMBRA INVEROSIMILE”    
Parla il presidente dell’istituto intitolato all’intellettuale. “Non abiurò mai alla fede comunista”
«Il Quaderno mancante? Non mi sono mai posto il problema. Ma l’ipotesi di un Gramsci che abiura alla fede comunista mi sembra fantasmatica». È molto prudente Giuseppe Vacca nel maneggiare l’enigma del taccuino scomparso. In qualità  di presidente della Fondazione Gramsci, ha istituito la commissione che indaga sulla faccenda, ma preferisce ritagliarsi il ruolo del notaio. Come se la cosa non lo riguardasse. «Mi sono sempre mosso su un altro terreno, che è quello dei contenuti. E sul piano dell’evoluzione del lessico e dei concetti, non sono rilevabili salti o buchi».
Ma l’ipotesi avanzata da Lo Piparo è che questo quaderno contenesse riflessioni indigeste per i comunisti.
«Stiamo ai fatti. Una volta uscito dalla galera, Gramsci avrebbe voluto andarsene a Mosca, non altrove. Il suo comunismo era eterodosso, ma da qui a farne un liberaldemocratico… ».
A questo proposito però l’Istituto Gramsci non è del tutto innocente. Dopo il crollo del Muro, il leader sardo divenne un pensatore ingombrante. Il recente libro di Guido Liguori, Gramsci conteso, ripercorre le letture che fiorirono intorno al Gramsci “liberale”, funzionale all’evoluzione del Pci in Pds etc.
«Ma fu proprio per sottrarre Gramsci alle strumentalizzazioni che allora mi battei per l’Edizione Nazionale delle sue opere. E poi non è mai esistita un’interpretazione ufficiale degli scritti gramsciani da parte dell’istituto».
E perché allora il conflitto con Togliatti venne prima negato e poi tenuto sullo sfondo?
«Finché è vissuto Togliatti, è stato lui a gestire le carte. E poi fino all’83 l’istituto è rimasto una sezione del comitato centrale del Pci, facilmente imputabile di essere organico al partito. Però non ha mai smesso di promuovere edizioni e convegni».
Non c’è dubbio. Fu dopo l’89 che Gramsci scomparve quasi completamente dalla circolazione culturale. E addirittura nel ’96 lei fece causa a Elvira Sellerio perché aveva pubblicato una nuova edizione delle Lettere.
«Fui obbligato a farlo, per sostenere Einaudi. Ma certo mi davo da fare con l’editore torinese perché ne riproponesse gli scritti».
Ma ancora oggi manca nelle librerie l’edizione completa delle Lettere.
«Sì, è vero, ne ho parlato con Einaudi anche di recente».
Che idea s’è fatto delle nuove ricerche di Lo Piparo?
«Si muove su un terreno che io non domino. Posso dirle che né Gianni Francioni né Valentino Gerratana, che hanno fatto un lavoro filologico sui Quaderni,
si sono mai imbattuti nelle tracce di un taccuino mancante».
Ma lei studia Gramsci da cinquant’anni, si sarà  fatto un’idea delle discrepanze segnalate da Lo Piparo.
«Non intervengo su cose che non conosco. Come presidente dell’istituto, ho promosso tutte le indagini tecniche possibili per dare una risposta alle questioni poste ora sia da Lo Piparo che da Luciano Canfora».
Si potrebbe però obiettarle che queste domande se le sarebbe potute porre anche lei molto tempo prima.
«Mi sono occupato di altre questioni. Anche perché credo che il compito dello storico non sia quello del giudice istruttore, che cerca le menzogne e le denuncia. Ho un’idea più tradizionale, che si richiama a Weber e a Croce: comprendere e spiegare».
In quest’ultimo lavoro, Lo Piparo la chiama in causa anche per le traduzioni dal russo delle lettere di Tania.
«La traduzione è di Rossana Platone, la figlia di Felice, e non mi sono mai posto il problema che non fosse fedele all’originale».
Lei ha mai sentito parlare di questo quaderno mancante? Canfora dà  importanza a una recente battuta di D’Alema: «Io non me lo vedo un Togliatti che distrugge un quaderno, me lo vedo che lo conserva per tirarlo fuori in tempi migliori».
«In tanti anni non ho mai sentito parlare di quaderni scomparsi. E quella di D’Alema è chiaramente una battuta».
Lei come spiega l’effervescenza intorno a Gramsci? Donzelli l’attribuisce al fatto che oggi il pensatore è finalmente di tutti, mentre per anni lei ne ha fatto un uso quasi proprietario.
«Questa accusa è infondata. Le carte sono sempre state a disposizione degli studiosi. E non ho mai visto Donzelli qui dentro affannarsi sui documenti. Penso che molti di loro rispondano a un richiamo mediatico».
Sta dicendo che Donzelli, Lo Piparo e Canfora vogliono stare sui giornali?
«Se scoprendo di volta in volta un ossicino di Cuvier ritengono di doverci scrivere sopra un libro congetturale, naturalmente sono liberi di farlo».
Cosa pensa dei loro lavori?
«Canfora sospetta che Grieco sia stato una spia del fascismo, ma parla di un personaggio di cui non sa nulla, e gliel’ho anche detto pubblicamente. Lo Piparo ha invece una formazione strutturalista, e delle lettere tende a dare un’interpretazione “sintomale”, ignara del contesto: non mi persuade per niente».
Ma insomma questo quaderno può venir fuori o no?
«Sulla base delle mie conoscenze, l’ipotesi mi sembra inverosimile. Ma da presidente del Gramsci, avendo attrezzato un’inchiesta, non posso dire di escluderlo a priori».


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