«Il vertice della banca nascose le carte sugli affari a rischio»

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ROMA — Il curriculum di Tommaso Di Tanno è lungo quanto una Quaresima. Presidente del collegio sindacale di Bnl al tempo dei famigerati Tango bond (costrinse la banca a svalutare tutte le attività  argentine), ha ricoperto lo stesso incarico a Vodafone e nella holding di Francesco Gaetano Caltagirone. Ma per sei anni è stato anche a capo dei revisori del Montepaschi. Ragion per cui è finito nel tritacarne. È indagato per ostacolo all’attività  di vigilanza, insieme agli amministratori che gestirono l’acquisizione dell’Antonveneta. Gli imputano di non aver controllato a sufficienza i meccanismi del cosiddetto titolo Fresh (Floating rate equity-linked subordinated hybrid) da un miliardo emesso da Jp Morgan per chiudere quell’operazione. Dice che non ci dorme la notte: «Mi sveglio per interrogarmi su che cosa avrei potuto fare e non ho fatto».
E la risposta?
«Partiamo da quello che ho fatto. Ho costretto Giuseppe Mussari ad aggiustare più volte l’operazione di cessione degli immobili del Monte servita a reperire parte delle risorse per comprare Antonveneta, e a svalutare l’avviamento di quella banca. Anzi, lui voleva svalutare di soli 3 miliardi, mentre io volevo la svalutazione integrale di 6,7 miliardi. Ci siamo fermati a 4,7 ma col risultato che un’ulteriore svalutazione dovrà  essere fatta nel bilancio 2012…»
Il magistrato non l’accusa certo di questo. La risposta?
«La verità  è che sul Fresh sono nella stessa situazione della Banca d’Italia. Mi sono state nascoste carte decisive».
Quali?
«Il parere positivo che il collegio sindacale ha reso nell’ottobre 2008 su quel Fresh non poteva tener conto della lettera di cosiddetta “indemnity” che avrebbe fatto venir meno la natura di capitale dell’emissione di Jp Morgan trasformandola in un prestito. E questo semplicemente perché la lettera che cambia le carte in tavola è del marzo 2009. Quindi successiva al rilascio del nostro parere. Lettera che, peraltro, mai ci è stata data».
Le sembra credibile?
«Eppure è andata proprio così. La lettera viene firmata da un funzionario qualsiasi, a fronte dei rilievi di un piccolo investitore che aveva sottoscritto titoli del Fresh».
Possibile che nessuno ne abbia saputo nulla? Una cosa del genere su un’operazione da un miliardo?
«Ai piani alti della banca qualcuno l’avrà  certo saputo. Ma non io. E comunque chi era al corrente ha ritenuto di poter fare finta di niente».
Il presidente Mussari, il direttore generale Antonio Vigni, altri suoi sottoposti… Chi? Forse il capo della finanza Baldassarri?
«Con la vicenda Fresh non c’entra. Ma con le perdite sui derivati sì. La direzione finanza operava in piena autonomia. Un bel giorno l’internal auditing gli fa una visitina e scopre un sacco di cose che non vanno. Ho la sensazione che Vigni cerchi di edulcorare il rapporto e di farlo arrivare più tardi possibile al consiglio di amministrazione. Quando arriva, però, faccio il diavolo a quattro. Mando a Vigni un verbale pesantissimo, lui mi risponde, gli replico che sono insoddisfatto. Poi scatta l’ispezione della Banca d’Italia che arriva alle mie stesse conclusioni. E siamo a oggi».
Al famoso derivato segreto Nomura che provoca una perdita spaventosa.
«Mai visto neanche quello. Ripeto: la direzione finanza operava senza controlli del consiglio e dei sindaci».
Non dica che non avreste potuto metterci il naso.
«Me lo sono chiesto. Probabilmente avevamo il potere di farlo. Resta il fatto che nelle imprese quotate il controllo contabile spetta alla società  di revisione e non al collegio sindacale…»
Questa mi suona tanto come un’autoassoluzione.
«Stabilire chi aveva la responsabilità  di fare cosa è importante in questa vicenda. E Vigni aveva il dovere di informare il consiglio che quel derivato aveva in pancia una perdita consistente. Invece non l’ha fatto».
Mi pare che tutta la storia sia piena di cose non dette.
«Sa come abbiamo appreso dell’acquisto di Antonveneta? Mussari si presenta in consiglio e dice: la compriamo noi. Vantandosi della riservatezza con cui aveva condotto un’operazione tanto importante. Portò la proposta da solo, con un parere tutto positivo di Mediobanca. Applaudivano tutti».
Anche lei?
«Io stavo zitto».
Avrebbe potuto dire che non era d’accordo.
«Diciamo che non avevo argomenti, così, su due piedi, per dire sì o no. Ma anche volendo, sarebbe stato difficile. Il fatto è che il collegio sindacale non sempre è nelle condizioni di conoscere tutto. Semplicemente perché, a differenza del manager che può farsi assistere dai migliori consulenti, non ha mezzi corrispondenti».
Non si capiva forse che era un’operazione spericolata?
«Non era sfacciatamente spericolata. Lo era se, per difendere la cosiddetta “senesità  del Monte”, si limitava l’accesso al capitale della banca per conservarne il controllo. Non lo era se si fosse colta quell’occasione per scendere sotto il 51% e consentire a nuovi soci di entrare e contare di più. Insomma la senesità  condanna il Monte ad una dimensione locale, come vado ripetendo da anni a tutti i presidenti della Fondazione, da Mussari a Mancini».
Che cosa vuole dire?
«Che Siena i soldi per fare l’operazione Antonveneta in condizioni accettabili probabilmente, come si è poi scoperto, non li aveva. Poteva averli se avesse fatto un aumento di capitale non di 5 miliardi, ma di 15. Questo però avrebbe comportato che la Fondazione diluisse significativamente la propria quota. Una cosa per loro inaccettabile».
Quindici miliardi, ho capito bene?
«L’operazione Antonveneta ha comportato una uscita di liquidità  di 16,8 miliardi: 9,3 per il prezzo pagato e 7,5 per le linee di credito Abn-Amro che il Monte ha dovuto sostituire».
Non riesco a immaginare che non avessero fatto i conti. E sono andati lo stesso allo sbaraglio mentre in America era già  scoppiato lo scandalo dei mutui casa e si preparava il crac Lehman? Non si poteva fermare tutto?
«Probabilmente sì. Forse la stessa Banca d’Italia avrebbe potuto negare l’autorizzazione, dicendo che le modalità  di finanziamento non erano più sufficienti considerato l’incedere della crisi finanziaria mondiale. Mi pare di ricordare che quando tutto iniziò, nel novembre 2007, il Monte capitalizzava in Borsa circa 13 miliardi: sei mesi dopo era a 9, più o meno il costo di Antonveneta».
Nessuno aprì bocca. Nemmeno la politica, perché sappiamo che il centrosinistra controlla gli enti locali che controllano la Fondazione che controlla la banca. Non lo considera stupefacente?
«La politica locale, perché quella nazionale in questa storia non c’entra nulla. Bisogna viverci, a Siena. Qui tutto gira intorno al concetto che il Monte è di proprietà  della città . Il resto è secondario. E su questo punto la sinistra, che governa gli enti locali, e la destra, che è all’opposizione, sono perfettamente d’accordo. Perciò nessuno ha detto l’unica cosa che bisognava dire, e cioè che il peso della Fondazione doveva scendere. Insisto, non l’ha fatto nemmeno l’opposizione».
Sergio Rizzo


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