L’effetto «baratro fiscale» gela la ripresa americana

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La notizia della repentina contrazione dell’economia degli Stati Uniti, col Pil passato dal confortante più 3,1 per cento della scorsa estate a un calo dello 0,1 per cento nel trimestre ottobre-dicembre, sono stati una vera doccia fredda per i mercati che hanno reagito con un indebolimento del dollaro e un peggioramento del clima nelle Borse, soprattutto in Europa. L’allarme è comprensibile, anche perché è la prima volta che l’economia Usa torna in crescita negativa dalla fine della Grande Recessione, a metà  del 2009.
Il rischio che l’America entri in una nuova fase di recessione è, però, remoto e questo non solo perché le cause della battuta d’arresto sono contingenti (soprattutto il forte calo della spesa militare e un rallentamento nella ricostituzione delle scorte di magazzino), ma soprattutto per i numeri positivi che vengono dal settore privato: a fronte di una spesa bellica che, con la fine delle guerre in Iraq e Afghanistan, è precipitata di oltre il 22 per cento (il calo più pronunciato degli ultimi 40 anni, non succedeva dai tempi del ritiro dal Vietnam), il mercato immobiliare, principale volano della ricchezza delle famiglie, dà  segni di ripresa (investimenti in edilizia residenziale cresciuti del 15,3 per cento). Ma, soprattutto, le imprese sembrano più ottimiste sul futuro: certo, non riempiono i magazzini perché si aspettano ancora diversi mesi difficili, ma hanno incrementato del 12,4 per cento gli investimenti in attrezzature e in software. Segno che intravedono una strada per tornare a crescere.
I prossimi mesi saranno, però, ancora difficili. Il terreno rimane accidentato, i rischi di finire fuori strada non sono venuti meno. Per questo la Federal Reserve ieri ha ribadito di non considerare affatto conclusa la fase degli interventi emergenziali: la Banca centrale continuerà  a sostenere l’economia americana tenendo quasi a zero il costo del denaro e immettendo liquidità  nel sistema attraverso massicci acquisti di titoli obbligazionari sul mercato. Ogni mese l’Istituto guidato da Ben Bernanke acquisterà  85 miliardi di dollari di titoli del Tesoro e di «bond» immobiliari. Una politica che ha portato a gonfiare a dismisura il bilancio della Fed che il 23 gennaio ha superato la soglia dei tremila miliardi di dollari: una cifra da capogiro se confrontata con gli 800 miliardi del 2008, prima dello «tsunami» di Wall Street e la «gelata» del credito che ha costretto l’Istituto di emissione a varare un programma massiccio di sostegni e salvataggi.
Ora la fase dei salvataggi è finita, quella dei sostegni non ancora: gli investimenti delle famiglie nella casa e quelli delle imprese indicano che un po’ di fiducia sta tornando. Ma la situazione nei prossimi mesi resterà  ancora molto fragile. La Fed continuerà  ad esporsi e a rischiare perché un ritiro, a questo punto, potrebbe essere un passo falso: la spesa militare continuerà  comunque a scendere mentre i consumi delle famiglie, che a fine 2012 erano ancora dinamici, presto risentiranno negativamente dell’accordo fiscale di Capodanno che, tra eliminazione degli sgravi contributivi per tutti i lavoratori e aumento delle tasse per i ricchi, sottrarrà  comunque all’economia un buon un per cento del Pil. Certo, non è il temuto meno cinque per cento del «fiscal cliff», ma lo scalino si sentirà . E i maxitagli di spesa, evitati a Capodanno, si riproporranno a fine febbraio. Rinviata a maggio la battaglia sul tetto del debito, diventa adesso questa la frontiera «calda» del negoziato tra Casa Bianca e Congresso.
Massimo Gaggi


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