Una presa di distanza resa obbligata dalle divisioni cattoliche

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Un anno e mezzo di governo di Mario Monti ha segnato il passaggio dal sogno di un ricompattamento dell’associazionismo, alla realtà  di una diaspora non pilotata né assecondata: semplicemente subìta, perché questa è la situazione. La prolusione di ieri del presidente della Cei appare come un messaggio a schierarsi solo coi «valori non negoziabili», raccolto prontamente.
Forse non è casuale che nelle stesse ore la Comunità  di Sant’Egidio, additata a torto o a ragione come la più «montiana» per il peso assunto dal ministro Andrea Riccardi, abbia preso posizione. Con un comunicato irrituale, spiegabile con le polemiche e gli attacchi ricevuti nelle scorse settimane, precisa di non essere coinvolta «ovviamente nella campagna elettorale»; e di «non usare le bandiere di Monti», rivendicando invece il proprio ruolo di assistenza ai poveri. «Il tempo elettorale è tempo di strumentalizzazioni, purtroppo», fa notare la Comunità  con una punta di amarezza, lasciando indovinare i veleni che hanno accompagnato e seguito la formazione delle liste centriste.
Il messaggio di Bagnasco che emerge in modo più netto è l’invito a non disertare le urne; a non fare promesse «incaute»; e a non trascurare l’impatto delle misure di rigore tanto necessarie quanto dolorose: naturalmente sullo sfondo di un’attenzione privilegiata ai «valori della vita». Per il resto, il capo dei vescovi sembra intenzionato, o forse obbligato a tenersi a distanza da uno scontro nel quale la Chiesa italiana ha molto da perdere. E rischia di sottolineare il suo affanno sia sul versante degli orientamenti elettorali, sia su quello della scelta degli interlocutori.
D’altronde, lo scontro fra i partiti è concentrato sull’emergenza economica. Del resto si parla poco o niente. E i dubbi sulla possibilità  di consegnare l’Italia ad una maggioranza stabile dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio rimangono intatti; anzi, a volte sembra quasi che aumentino. L’attacco di Monti contro il bipolarismo incarnato dal centrodestra di Silvio Berlusconi e della Lega e dal centrosinistra di Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola non ha soste. E dopo che ieri il premier ha accennato alla possibilità  di un governo di unità  nazionale per fronteggiare problemi non risolvibili con «maggioranze ristrette», la reazione è stata dura. Se anche qualcuno teme un epilogo che non permetterà  coalizioni stabili, ammetterlo in questa fase viene ritenuto un suicidio; comunque un tabù.
Un Pd che si sente ancora saldamente in vantaggio, in parte non rinuncia alle aperture di credito nei confronti di Monti; in parte lo punzecchia dandogli del presuntuoso e accusandolo di favorire indirettamente un Berlusconi a caccia degli astensionisti delusi dal Pdl. Ma soprattutto, la sinistra non gradisce le allusioni del presidente del Consiglio ad una possibile manovra correttiva in caso di vittoria dell’alleanza Pd-Sel. «Mi pare che dica che la manovra non ci sarà  se c’è lui» a palazzo Chigi, ironizza Bersani. È di fronte al piano di riduzione graduale delle tasse e all’accenno ad un Pd «condizionato dalla Cgil», il capo del sindacato, Susanna Camusso, afferma: «Monti invia un messaggio minaccioso». La Chiesa non può che stare a guardare, inquieta per quello che si profila dopo il voto.


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