Davos, l’oscar della vergogna va alla Shell

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È dal 2000 che Greenpeace Svizzera e Berne Declaration, in concomitanza con il World Economic Forum di Davos, danno la possibilità  di votare a tutti gli abitanti del pianeta sul sito web del singolare «concorso» quella che per loro è la corporation che, con il suo operato, maggiormente ha contribuito a distruggere l’ambiente e/o causare impatti devastanti sulle popolazioni locali.
Tra le sette aziende in nomination, la Shell ha avuto il sopravvento «grazie» alla lunga scia di inquinamento e disastri che si lasciano dietro le sue attività  di estrazione del petrolio. Ora l’azienda sta investendo miliardi di euro per bucherellare i fondali artici, non senza problemi e difficoltà  di natura tecnica, tanto che l’amministrazione Obama sta valutando se confermare o meno le licenze di esplorazione, mentre il mondo della finanza teme che l’investimento sia troppo rischioso per essere giustificato. Come se non bastasse, la compagnia con sede a l’Aja si è già  buttata a capofitto sull’affare delle cosiddette fonti non convenzionali. È presente in Canada, nella regione dell’Alberta, dove l’estrazione delle sabbie bituminose ha sconquassato una larga fetta del territorio, mentre è notizia degli ultimi giorni la firma di un un contratto multi-miliardario con il governo ucraino per lo sfruttamento del gas di scisto.
Ma la Shell è famosa soprattutto per le malefatte nel Delta del Niger, dove anche secondo un rapporto delle Nazioni Unite dell’agosto del 2011 avrebbe il dovere di ripulire le tante lordure combinate in decenni di attività . Per gli esperti dell’Onu, solo per bonificare la parte del Delta del Niger abitata dagli Ogoni – la popolazione del grande scrittore e attivista Ken Saro Wiwa, trucidato nel 1995 – ci vorrebbero 30 anni e decine di miliardi. La Shell per il momento non si è assunta le sue responsabilità  e, così come le altre compagnie presenti in loco, tra cui l’italiana Eni, continua a praticare il gas flaring. Ovvero il bruciare in torcia il gas connesso al processo d’estrazione del greggio, che in teoria in Nigeria sarebbe illegale in base a un provvedimento normativo del 1979.
Detto del pessimo record ambientale della oil corporation anglo-olandese, va detto che neanche le altre «concorrenti» erano da meno.
Insieme all’anima nera della finanza internazionale, la Goldman Sachs, troviamo la Lonmin, l’azienda del settore minerario assurta alla cronache internazionali la scorsa estate per il dramma di Marikana, allorché 44 minatori furono uccisi dalle forze dell’ordine sudafricane chiamate in causa dalla stessa Lonmin per sedare le proteste contro le pessime condizioni lavorative.
In nomination c’erano anche la francese Alstom, «specializzata» in corruzione, la Coal India, che con i suoi 400 milioni di tonnellate di carbone estratti l’anno (il 90 per cento della produzione del Paese asiatico) contribuisce non poco al dramma dei cambiamenti climatici e la compagnia britannica di sicurezza privata G4S, che «pare» sia abbastanza esperta di violazioni dei diritti umani e delle regole più basilari del diritto internazionale, essendo presente in ben 125 Paesi del globo).
Dulcis in fundo – si fa per dire – la Repower, società  che giocava in casa, visto che è svizzera, ma che nella nostra Calabria vuole costruire insieme alla multi-utility italiana Hera la centrale a carbone di Saline Joniche. Poco importa che praticamente tutta la popolazione locale sia contraria e che il progetto avrà  impatti devastanti – oltre a «incastonarsi» in un contesto dove la criminalità  organizzata la fa da padrone.
Nota a margine. Nella sala dove si è tenuta la «premiazione», a pochi passi dalla sede del World Economic Forum, non era presente nessun esponente delle azienda nominate. Ma non perché avessero deciso di snobbare il premio…


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