Derivati, una “mina” da 218 miliardi

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MILANO — Le prime dieci banche italiane hanno puntato sulla roulette dei derivati una fiche da 218 miliardi, una cifra pari al Pil di tutta la Grecia. E malgrado l’amara lezione del 2007-2008 – quando subprime, Cdo, Cds & affini hanno messo ko Lehman Brothers e i mercati – la montagna di future e opzioni ad alto rischio parcheggiati nei conti del credito di casa nostra continua imperterrita a crescere: nel 2009 erano “solo” (si fa per dire) 158 miliardi. A dicembre 2011 erano già  saliti del 30% a 205 miliardi. A giugno dello scorso anno, l’ultimo dato disponibile, la febbre da derivati tricolore aveva toccato quota 218 miliardi. Unicredit ne ha iscritti a bilancio 118 miliardi, un gruzzoletto pari a cinque volte il valore di Piazza Cordusio a Piazza Affari. Intesa-Sanpaolo segue a distanza (59 miliardi) mentre il Monte dei Paschi di Siena – vittima oggi dei suoi esercizi di finanza creativa – ha nel salvadanaio 18,3 miliardi di derivati, il doppio di tre anni fa.
I RISCHI POTENZIALI
Che rischio corrono clienti e azionisti delle banche italiane? Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di IntesaSanPaolo, ha gettato ieri acqua sul fuoco: i guai Mps – ha detto – sono «un fatto occasionale» mentre il sistema in sé «è sano». I derivati del resto – è il mantra dei loro fan – sono uno strumento di copertura, nato per proteggere le banche dai rischi degli sbalzi d’umore dei mercati. Forse una volta era davvero così. Ora non più. Il 97% di future e opzioni in tasca agli istituti europei, calcola un recente (e come sempre precisissimo) studio di R&S Mediobanca, è speculativo. Serve cioè a provare a guadagnare, ma purtroppo anche a perdere, grandi cifre investendone in realtà  pochissime.
Lo fanno anche le banche tricolori: sono senza rete – catalogati cioè fuori dalla voce “derivati di copertura” – il 92% di quelli di Unicredit, l’82% di IntesaSan-Paolo e il 97,5% per Siena. Una valanga di prodotti sofisticatissimi, scambiati a getto continuo sui mercati regolamentati – e non solo su quelli – il cui rischio potenziale, non fosse altro per la loro complessità , è difficile da quantificare anche per i radar sensibilissimi delle autorità  di sorveglianza.
Chi sbaglia in questa roulette rischia di pagare un prezzo salatissimo: pochi mesi fa Jp Morgan è riuscita a perdere 6 miliardi di dollari in poche settimane per la scommessa sbagliata di un suo dipendente su un derivato che scommetteva (è il caso di dirlo) sul numero di fallimenti di azienda negli Usa. Roba davvero da stangata
al casinò.
NUMERI DA BRIVIDI
L’Italia, è stato ripetuto molte volte negli ultimi mesi, è messa meglio su questo fronte rispetto agli altri Paesi. Le nostre banche – è l’assunto dei sostenitori di questa tesi – sono state più prudenti e non a caso (salvo i 271 miliardi di prestiti low-cost della Bce e i Tremonti- bond per Mps e Bpm) nessuna ha chiesto aiuto allo Stato. È vero? In effetti sì. Diversi big del Vecchio continente hanno esposizioni a titoli ad alto rischio molto superiori di quelle di casa nostra. La Deutsche Bank da sola sedeva a giugno 2012 su un Everest di 859 miliardi di finanza creativa, quattro volte il “tesoretto” dei primi dieci istituti italiani. Il Crédit Suisse ha in pancia 764 miliardi di opzioni e future. Che sommati ai 400 di Ubs rappresentano una cifra pari al 254% del Pil elvetico. Unicredit e Intesa, per dire, sono ferme un ben più tranquillizzante 10,7% del Pil italiano.
Se si allarga l’obiettivo al mondo, le cifre sono ancora più da brividi. Il valore nozionale dei derivati in circolazione sui mercati globali a metà  dello scorso anno – ha calcolato la Banca dei Regolamenti Internazionali – era pari a 637 trilioni di dollari. Un numero da Paperopoli che equivale più o meno 10 volte il Prodotto interno lordo dell’intero pianeta, Stati Uniti e Cina compresi. Come dire che il 90% di questa montagna di carta a facile rischio d’incendio – pur valendo fior di dollari – non rappresenta in realtà  nessun bene reale. «Servono rapidamente norme sovranazionali per questo settore », sostiene non a caso il presidente della Consob Giuseppe Vegas in un articolo pubblicato oggi su “Il Foglio”. I regolatori, del resto, non paiono finora aver capito bene il pericolo: molte banche, specie nel 2011, hanno venduto attività  “vere” facendo incetta di future e options solo perché le regole di Basilea 3, i nuovi principi contabili per il credito la cui applicazione è stata appena rinviata, incentivavano a far man bassa di titoli a rischio. Risultato: oggi è diventato ancor più difficile disinnescare la bomba-derivati.


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