Il nazionalismo del Giappone apre la sfida delle valute

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Stavolta invece la comunità  degli amministratori delegati, celebri economisti e leader politici si era riunita a Davos per gli incontri di gennaio del World Economic Forum almeno quattro volte dall’inizio del terremoto finanziario. Fra loro, il protezionismo suonava solo come un vago rischio evocato ogni tanto. Un argomento da conversazione. Stavolta invece ci siamo, o almeno rischiamo di esserci. Quando ieri in una saletta del World Economic Forum sono entrati il governatore della Banca d’Israele Stanley Fischer, l’ex uomo di vertice della Bank of England Adam Posen e l’economista Nouriel Roubini, tutti sapevano di cosa avrebbero parlato. Il tema ufficiale era il cosiddetto «quantitative easing», la stampa di moneta per acquisto di titoli sul mercato che la Federal Reserve americana e la Bank of England praticano massicciamente da anni. Ma in realtà , anche senza nominarlo, tutti parlavano del Giappone.
Tornato al potere, il premier Shinzo Abe ha appena innescato quello che per molti a Davos è il primo grande gesto protezionista di questa crisi. Per ora con dubbio successo, Abe sta spingendo la Banca del Giappone a stampare yen sempre più aggressivamente. Il governatore Masaaki Shirakawa ha già  alzato l’obiettivo d’inflazione (dall’uno al due per cento), ma ad aprile sarà  sostituito da un successore più addomesticabile dal potere politico. Negli ultimi due mesi lo yen ha già  svalutato del 10% sul dollaro e del 14% sull’euro, rendendo più competitive le auto o l’elettronica «made in Japan» e meno permeabile il mercato giapponese da parte degli esportatori europei, cinesi o americani. Xinhua, l’agenzia di stampa cinese, accusa già  Tokyo di scelte «pericolose» che possono portare a una «guerra monetaria».
Ieri Fischer, Posen e Roubini ne hanno parlato a Davos. Il patto era che ciò che è stato detto non uscisse da quella stanza nel centro congressi. Ma se c’è una lezione che emerge dalla giornata di ieri, è che il Giappone di Abe non è affatto nel ruolo dell’America di Hoover che innescò il protezionismo di 80 anni fa. Il virus è già  in circolazione da tempo. Il neonazionalismo di Abe nella guerra delle monete, visto da Davos, è solo la risposta alla pressione della Cina: lo yuan di Pechino si è svalutato per anni perché di fatto agganciato o quasi al dollaro, mentre quest’ultimo era spinto al ribasso dagli acquisti di titoli per migliaia di miliardi lanciati dalla Federal Reserve nel 2009. Neanche il deprezzamento del dollaro sull’euro, del 10% circa negli ultimi sei mesi, risponde alle realtà  della crescita e dell’occupazione nelle due grandi aree.
Le monete, il tema di cui Davos parla di meno, sono sempre più lo strumento del protezionismo e dei colpi sotto la cintura di questi anni. Le valute e le loro banche centrali rischiano di dar vita allo Smoot-Hawley Act del Ventunesimo secolo. Ieri Roubini ha avvertito sulle possibili conseguenze: tutte le grandi economie tra un po’ rischiano di trovarsi dov’erano prima, perché è impossibile che tutti svalutino simultaneamente, ma con un prezzo del petrolio e delle materie prime sempre più alto.
Secondo quanto filtra al World Economic Forum, il Tesoro americano vuole mettere il problema del Giappone sul tavolo del G7. Non sarà  facile all’amministrazione Usa accusare Tokyo di imitare ciò che l’America fa da anni. Ma il duello di parole è già  iniziato. Pochi giorni fa Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ha accusato Shinzo Abe di voler ridurre l’indipendenza della sua Banca centrale. Gli ha subito risposto il ministro dell’Economia di Tokyo Akira Amari: «La Germania non può certo criticare nessuno. È il Paese che ha beneficiato di più dei cambi fissi dell’euro». Non sarà  l’ultima scaramuccia, forse solo una delle prime.
Federico Fubini


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