Ingroia esclude la desistenza Rottura con Borsellino sui nomi

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ROMA — Tira una brutta aria tra Pd e Rivoluzione civile in vista della battaglia campale per la conquista del Senato che — sondaggi alla mano — rischia di essere persa da Bersani per un pugno di voti. Quelli incamerati dal neonato movimento degli ex pm Ingroia e Di Pietro che spera di conquistare seggi senatoriali proprio in Sicilia e in Campania, togliendo così ai progressisti la possibilità  di ottenere 2 dei 4 premi di maggioranza regionali che poi faranno la differenza sul fronte della governabilità . Così, dopo molti tentativi andati a vuoto di stringere «un patto politico alla luce del sole con Bersani», Antonio Ingroia lancia la sfida al segretario: «Escludo patti di desistenza, non ci sono patti di alcun tipo con nessuno, noi non facciamo queste cose dietro le quinte. Poi non ho ancora capito cosa intende fare il Pd con Monti, noi siamo alternativi al montismo. È quindi impensabile parlare di desistenza se prima il Pd non chiarisce i suoi rapporti con Monti… Monti è peggio di Berlusconi e se il Pd guarda a Monti paga nei sondaggi».
Si capirà  entro lunedì, alla presentazione delle liste, per capire se davvero Ingroia e Di Pietro intendono rendere difficile, se non impossibile, la vittoria di Bersani e Vendola al Senato: «Se dovesse accadere, sarà  responsabilità  del centro sinistra», osserva Ingroia. E Luigi Ligotti (Idv), candidato in testa di lista al Senato in Sicilia, conferma che nell’isola «siamo stimati all’11%. Sopra la soglia di sbarramento». Ma ora nella sede di «Rivoluzione civile» si pensa — dopo aver candidato a Palermo gli ex giornalisti dell’Unità  Saverio Lodato e Sandra Amurri — di rafforzare la squadra del Senato con l’inserimento ai primi posti di Franco La Torre, figlio del segretario regionale Pio, assassinato dalla mafia nel 1982.
Ma sul fronte antimafia l’ex procuratore aggiunto di Palermo ha un problema. Nella sua città , infatti, si è chiamato fuori Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato da Cosa nostra nel 1992, che ha visto retrocessi in posizione non sicura due giovani esponenti del movimento che si rifà  all’«agenda rossa» di Paolo Borsellino: «Probabilmente qualcuno era interessato unicamente alla mia candidatura e, una volta venuta a cadere questa ipotesi, non ha ritenuto di dare fiducia a questi giovani». Ingroia ha manifestato «affetto, stima e riconoscenza» a Borsellino ma poi ha confermato che il movimento (sostenuto da Idv, Verdi, PdCI e Rifondazione) «non è l’antipolitica». Per cui sono state messe insieme «la società  civile e le migliori forze della politica».
Un’altra grana, di dimensioni minori ma non trascurabili, arriva con l‘endorsement di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per mafia: «Tra Grasso (ex procuratore nazionale antimafia e ora candidato per il Pd, ndr) e Ingroia, voterei per Ingroia», ha detto Ciancimino jr., che, in qualità  di testimone sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, era stato ritenuto subito inaffidabile da Grasso e (almeno in un primo momento) attendibile da Ingroia. Altri problemi infine, ci sono in Piemonte con i «No Tav» che chiedono un posto sicuro in lista per la leader del movimento Nicoletta Dosio.
Un caso a parte è quello di Claudio Giardullo segretario generale del Silp Cgil, uno dei sindacati storici dei poliziotti, che vanta una storia politica partita con il Pci, transitata da Ds e approdata al Pd. Tuttavia, il Partito democratico, nella composizione delle liste, non ha dato priorità  al comparto della sicurezza e così dopo aver preso atto di essere stato escluso, il poliziotto Giardullo ha avuto un contatto con Ingroia, di cui «ha condiviso il progetto politico», e si è ritrovato in lista con «Rivoluzione civile» alla Camera in Lombardia, Lazio e Campania. Spiega dunque il sindacalista della polizia (che sta per dimettersi): «Ora spero di lavorare bene per le politiche di tutela degli operatori della sicurezza».
Dino Martirano


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Più che il Paese è stato il Governo sin qui a non essere pronto per la riforma del mercato del lavoro. A tre mesi dall’apertura del tavolo con le parti sociali, a dieci giorni dalla sua tempestosa chiusura, a una settimana dal varo in Consiglio dei ministri della riforma, non c’è ancora un disegno di legge, un articolato che chiarisca i moltissimi punti lasciati in sospeso dalle linee guida diffuse dall’esecutivo nei giorni scorsi.

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