Così il blitz in Algeria è finito nel sangue

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L’operazione delle forze speciali algerine è cominciata ieri con le prime luci dell’alba. Obiettivo: porre fine all’incubo per i 41 tecnici stranieri (per lo più norvegesi, inglesi, americani, francesi e giapponesi) catturati ventiquattro ore prima, assieme ad alcune centinaia di lavoratori locali, dai militanti islamici del gruppo dei «Moulathamines» (i «Segnati col sangue») nell’impianto per l’estrazione del gas a In Amenas, nel cuore del deserto, 1.300 chilometri a sud della capitale e solo una trentina dal confine con la Libia. La battaglia dura tutta la giornata, contrassegnata a fasi alterne da messaggi di speranza, ma anche informazioni confuse e drammatiche sulla sorte degli ostaggi. In serata i portavoce jihadisti, rilanciati dai media della Mauritania, parlano di 34 morti tra gli occidentali, oltre a 14 sequestratori. Per contro, le fonti ufficiali algerine si dimostrano molto più positive e segnalano «25 ostaggi stranieri liberati e solo sei uccisi». Ma ammettono anche che il dato resta parziale. Più tardi la televisione di Stato, annunciando la fine del blitz, ha anche parlato di 4 stranieri uccisi senza però fornire il bilancio totale delle vittime, mentre i servizi segreti dichiaravano che gli stranieri morti sarebbero stati 7 (su 30 uccisi). Sembra che il commando terrorista fosse giunto dalla Libia.
Che non ci fosse spazio per la trattativa era stato evidente sin da mercoledì sera. «Non negozieremo con i terroristi», aveva dichiarato perentorio dalla capitale lo stesso ministro degli Interni Daho Ould Kabila. Parla per esperienza diretta. Il governo algerino adatta in questo caso la stessa strategia dell’inflessibilità  che applicò per tutti i sanguinosi anni Novanta nel braccio di ferro con il Fronte Islamico. Oltre 200.000 morti in meno di 10 anni. Tutt’oggi regna il timore che qualsiasi segno di debolezza possa riportare all’incubo dell’era degli attentati e dei massacri. E ciò spiega anche quanto la popolazione algerina sia per lo più riottosa nello scendere in piazza contro il governo di Abdelaziz Bouteflika, preferiscono in genere la stabilità  del regime alle incertezze della rivoluzione. Dal Pentagono sottolineano oltretutto che Al Qaeda è all’origine di quest’ultima azione contro gli stranieri. La destabilizzazione del confinante Mali fa paura. Ad Algeri specificano dunque che questo è un affare per l’esercito. Nessuno spazio per la diplomazia, nessun cedimento. Bouteflika stesso resta defilato. Non rilascia neppure una dichiarazione. Ministero della Difesa e stato maggiore dell’esercito fanno corpo unico per risolvere il problema velocemente e a qualsiasi prezzo. Così a In Amenas l’attacco è subito violento. In blitz di questo genere i primi minuti sono fondamentali. Svanito l’effetto sorpresa, la posizione degli ostaggi si fa subito estremamente precaria. L’intelligence algerina è aiutata dalle informazioni, con tanto di grafici e fotografie, fornite dai servizi occidentali. Francesi, inglesi e americani passano le immagini raccolte dagli aerei senza pilota mandati in tutta fretta nei cieli della regione. Prima sparano con i cannoncini e le mitragliatrici pesanti degli elicotteri, poi irrompono le unità  delle teste di cuoio appena atterrate. «Ma l’attacco ha incontrato ben presto grandi difficoltà . I guerriglieri qaedisti sono buoni combattenti. Sono ben armati, si fanno scudo con i civili inermi. Sanno che gli ostaggi occidentali hanno un valore particolare e li usano con astuzia. Oltretutto si deve operare in un ambiente estremamente pericoloso. Ci sono le condotte e i silos pieni di gas altamente infiammabile. Il rischio di provocare una gigantesca esplosione è continuo», notano ad Al Watan, uno dei maggiori quotidiani di Algeri. E’ lo stesso problema incontrato nel 2011 dalle forze Nato quando si trovarono ad affrontare le brigate di Gheddafi nelle zone delle strutture petrolifere libiche.
Complicato capire come sia andato lo scontro tra le strutture dell’impianto. Un occidentale liberato ha rivelato che i jihadisti hanno cinture di esplosivo alla vita e le avrebbero imposte anche ad alcuni ostaggi. Sabbia, reti metalliche, linee elettriche, tubi di acciaio e depositi del gas: le autorità  algerine ribadiscono che l’impianto sin dall’inizio è stato completamente circondato dai militari per bloccare i tentativi di fuga. I portavoce della Brigata islamica Masked, che a loro volta si fanno sentire dalla Mauritania, a metà  pomeriggio rendono noto che quasi tutti gli stranieri sarebbero morti quando gli elicotteri hanno centrato il minibus su cui erano stati caricati dai sequestratori per cercare di raggiungere un’area meno esposta alle bombe. «Solo sette occidentali sono ancora vivi», aggiungono. E, spiegano nel dettaglio, quelli rimasti nelle mani dei rapitori sarebbero due americani, tre belgi, due giapponesi e un britannico. Circa 600 dipendenti algerini sarebbero invece riusciti a fuggire nella confusione. In mattinata i terroristi avevano liberato alcune decine di donne locali.


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