Solo e disintegrato al volante di un’auto

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Alla luce spietata di questo giudizio appare tanto più interessante la scelta di Miljenko Jergovic di situare i personaggi del suo romanzo Volga, Volga (traduzione di Ljiljana Avirovic, Zandonai, pp. 300, euro 16,00) nell’ampia zona grigia che si estende tra fervidi costruttori e non meno volenterosi demolitori, e più precisamente in quella piccola borghesia concentrata sui propri drammi privati per cui la Jugoslavia era solo un dato acquisito. Così è certamente per Dzelal Pljevljak, il protagonista di questo ipnotico road novel, che, trincerato dietro il volante della sua Volga nera, sembra raccogliere idealmente il testimone di Hasan Hujdur e Karlo Adum, gli eroi degli altri due tasselli della trilogia automobilistica di Jergovic, Buick Riviera (Scheiwiller, 2004) e Freelander (Zandonai, 2010).
Anche qui la macchina – che per l’autore rappresenta una sorta di ibrido «a metà  tra un essere vivente e un’opera d’arte» – in virtù del rapporto esclusivo che instaura con chi la guida, si rivela come l’unico elemento capace di mettere in moto esistenze altrimenti paralizzate dal lutto e dal risentimento. Contemporaneamente, approfondendo il tema della mancata adesione a una prospettiva condivisa, che in Freelander restava ancorata a contingenze di ordine sociale, politico ed etnico, Jergovic esplora in Volga, Volga la dimensione del sacrificio personale come unica possibile soluzione per sottrarsi al coinvolgimento in un crimine collettivo percepito come fatale. Solo espiando una colpa che non è la sua, Pljevljak eviterà  infatti di essere attirato malgré soi nella logica perversa della guerra e dell’odio; solo fingendosi ciò che non è – ossia un assassino – riuscirà  a rimanere se stesso, ovvero indicibilmente triste, solo e puro.
In quest’ultimo frammento del trittico, l’alterità  dell’eroe rispetto alla realtà  in cui vive assume una valenza pressoché metafisica, dettata non solo dall’impossibilità  di penetrare nelle altrui solitudini, ma anche dalla sensazione che gli altri e le loro storie restino sostanzialmente inconoscibili. Nella beffarda parabola inscenata da Jergovic qualsiasi tentativo di condividere il proprio destino è destinato inevitabilmente a cozzare contro il carattere illusorio intrinseco a ogni immagine coerente del mondo. Se Dzelal Pljevljak, mosso dall’inspiegabilità  della propria tragedia familiare, ha cercato conforto nella religione (risolvendosi a quel passo che Karlo Adum, incapace di varcare la soglia della chiesa, rimandava in Freelander di settimana in settimana), ciò tuttavia non significa che la dimensione apparentemente concorde della comunità  possa alleviare la sua pena. Per quanto riconosciuti e accettati come propri «simili», gli altri non cessano di essere incomprensibili e sfuggenti. Non fa eccezione neppure quell’ispirato imam giunto dalla Palestina in cui il neofita Pljevljak crede di scorgere una parte di se stesso («Sapevo tutto così bene che avrei potuto trasferirmi nella tristezza di Haris Efendija. Trasferirmi con il pensiero in lui e nella sua mente e trascorrere così il resto della mia vita. Felice»), e che da ultimo non si rivela altro che il rampollo schizofrenico di uno psicanalista belgradese.
D’altronde, il motivo della inafferrabilità  del reale (e della labilità  di ogni narrazione che pretenda di illuminarne il segreto) diventa addirittura programmatico nella parte centrale del libro, là  dove i soliloqui in prima persona del protagonista vengono inframmezzati dal tentativo di un documentarista immaginario di ricostruire la vicenda nei suoi contorni effettivi. Impresa che ovviamente fallisce, minata dall’inattendibilità  stessa dei testimoni, aggrappati sentimentalmente a dettagli senza importanza, oppure barricati dietro a una fila interminabile di digressioni e divagazioni, arroccati nella convinzione fondamentalmente superstiziosa che, «se avessero trascinato all’infinito la storia» senza giungere alla sua nota conclusione, tutti sarebbero rimasti «vivi e vegeti, ancorché infelici». E, in effetti, la forza della scrittura di Jergovic consiste proprio nella sua capacità  di evocare con pochi tratti – a un tempo spietati e ironici – una società  jugoslava che, sull’orlo della disintegrazione, indugia in passatempi fatui come cercare di comprendere chi fosse «davvero» Dzelal Pljevljak, divorando le riviste scandalistiche che, con morbosa curiosità  e sottintesi antimusulmani, frugano nel suo passato familiare. Un’occupazione che non si distingue dai rituali della vita domestica, come la preparazione dei peperoni sott’aceto per l’inverno, e che diventa metafora dello stato di alienazione di un popolo impegnato a «disabituarsi al paese in cui è sempre vissuto», per non lasciarsi trascinare nel gorgo del suo imminente naufragio. Cosicché alla fine risultano alquanto patetici i tentativi del documentarista fittizio di conferire maggiore tangibilità  ai suoi personaggi, sperando di poterne pubblicare le foto all’interno del suo libro.
Dissolvendo virtuosisticamente solo nelle ultime dieci pagine la cortina di fumo che avvolge le vite dei suoi personaggi, Jergovic costringe il lettore a porsi domande scomode sul labile confine oltrepassato il quale la accettazione conformistica dell’esistente si trasforma in criminale opportunismo. E a interrogarsi sulle scelte spesso dolorose che attendono chi, di fronte alla Storia, voglia ribadire la propria libertà , tentando «di evitare ciò che il destino gli riserva».


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