Hollande: «In Mali ci fermeremo quando la minaccia sarà  cessata»

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PARIGI — Al quinto giorno dell’operazione Serval, il presidente Hollande ripete che «la vocazione della Francia non è di restare in Mali»: l’intervento è stato deciso in extremis, era «l’unica soluzione» per evitare la caduta di Bamako e per dare tempo alle forze africane di organizzarsi. Quindi, allora, quanto durerà  la missione? «Non partiremo prima di avere ristabilito la sicurezza, autorità  legittime, un processo elettorale e ottenuto la fine dei terroristi che minacciano l’integrità  del Paese». Non è un programma da poco. Ci vorranno magari non i dieci anni evocati dal pessimista ex premier Michel Rocard ma — visto lo stato scoraggiante degli eserciti locali a cui bisognerebbe passare il testimone — neanche pochi giorni.
L’inviato speciale dell’Onu, Romano Prodi, a fine dicembre aveva avvisato che una forza militare dei Paesi dell’Ecowas (Comunità  dell’Africa occidentale) non sarebbe stata pronta prima di settembre 2013 e nel frattempo le cose non sono molto migliorate. Mentre i contingenti africani (forniti da Nigeria, Niger, Senegal, Benin, Burkina Faso, Togo, Guinea e Ghana) cominciano ad arrivare in Mali a gruppi di poche decine di soldati, l’esercito francese è costretto a potenziare rapidamente le sue forze — da 750 a 2500 uomini — usando le basi militari che per fortuna gli restano da una secolare presenza in Africa.
Nella notte da lunedì a martedì è arrivata dalla Costa d’Avorio a Bamako una colonna di circa 40 blindati, diretti verso la linea del fronte che separa il Nord controllato dagli islamisti dal Sud del governo legittimo; i raid aerei partono sia dalla Francia (cacciabombardieri Rafale) sia dalle basi in Ciad (Mirage) e Burkina Faso (elicotteri Gazelle). Dopo i bombardamenti, le prime truppe di terra sono entrate in azione per riprendere agli islamisti il villaggio di Diabali, giudicato strategico perché a soli 400 chilometri dalla capitale Bamako.
L’impegno della Francia cresce e con esso la perplessità  per lo scarso aiuto militare dell’Europa. Domani a Bruxelles si terrà  una riunione di emergenza dei ministri Ue, ma intanto ieri a Strasburgo la rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Catherine Ashton, ha mostrato ancora una volta l’inconsistenza europea su questi temi. «Vorrei ringraziare gli Stati membri dell’Ue e soprattutto la Francia e gli Stati dell’Ovest africano per essere venuti in aiuto del Mali — ha detto la Ashton usando vuote formule diplomatiche —. Siamo direttamente coinvolti da quel che sta accadendo». Ha subito preso la parola per risponderle, con la consueta franchezza, l’europarlamentare franco-tedesco Daniel Cohn-Bendit: «Tutti usano il “noi” ma a combattere c’è solo la Francia. L’Europa fornisce le infermiere ma a farsi ammazzare ci sono solo soldati francesi». A Parigi, dopo Alain Juppé nell’opposizione, anche il ministro Alain Vidalies (rapporti con il Parlamento) ha evocato «assenze un po’ spiacevoli, il coinvolgimento dell’Europa è davvero minimo».
Hollande è lasciato solo dagli alleati ma in visita negli Emirati assume toni insolitamente marziali dicendo di volere «distruggere i terroristi». Il Consiglio francese del culto musulmano, comunque, lo ha già  ringraziato: quando parla del Mali l’Eliseo fa attenzione a non usare mai il termine «ribelli islamici», preferendo «terroristi».


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