Praga e Bratislava, il divorzio felice “Vent’anni dopo ci amiamo di più”
BRATISLAVA. Asera, lo struscio tra vinerie e locali di tendenza sul viale e sulle viuzze che portano all’Opera di Bratislava è tornato abitudine del nuovo ceto medio, come ai tempi degli Asburgo e poi dello Stato unito di Masaryk e Kafka. Ragazzi con l’abito buono e ragazze stupende si scrutano accennando sorrisi, a caccia di nuovi incontri, il centro storico della graziosa capitale in miniatura, restaurato a meraviglia, è specchio di nuova fierezza nazionale e cultura borghese ritrovata. L’Opera sembra una miniatura di quella viennese, i palazzi delle famiglie antiche evocano Praga. Fierezza nazionale, ma contro nessuno. Meno che mai contro i tutori di ieri. Di loro, i cugini cèchi, qui non è rimasto nessun simbolo tranne l’ambasciata. Eppure qui ci tengono a dirti che il loro Teatro nazionale è in tournée a Praga e vanta il tutto esaurito. Ecco Cèchia e Slovacchia vent’anni dopo. L’avventura della separazione consensuale, il “divorzio di velluto”, cominciò senza certezze, nell’Europa dove Milosevic preparava le guerre di pulizia etnica. Cèchia e Slovacchia, vent’anni dopo: quel flop matrimoniale è oggi un caso unico di divorzio riuscito. Vivono separati ma felici, senza arroganze leghiste né ostilità come tra fiamminghi e valloni. Tastiamo dunque il polso al “divorzio di velluto”, ascoltiamo i protagonisti di allora e di oggi.
«Fu una scelta triste ma inevitabile », mi dice passeggiando il drammaturgo engagé Milan Uhde, già braccio destro di Havel. «Mi sentii lacerato da sentimenti contrastanti dovendo, da presidente del Parlamento cèco, pronunciare il discorso ufficiale, dissi solo “Buon giorno, Repubblica cèca”». Conviene Pavel Vilikovsky, uno dei maggiori scrittori slovacchi, sorseggiando un irish coffee accanto all’Opera: «Io allora mi schierai contro la separazione, la maggioranza era con me, ma i politici nazionalisti nei due campi ebbero il sopravvento. Per fortuna, senza violenze, senza che volasse nemmeno uno schiaffo tra i cèchi più urbani e industriali e noi slovacchi più rural- tribali». «Penso in slovacco», continua, «ma con una mamma slovacca e un papà cèco, professore di Storia venuto qui da Praga, la mia identità nazionale è un sentimento contraddittorio ». Inutile andare a caccia di odii e rancori nei giovani dei due Stati. «Eppure», aggiunge Vilikovsky, «a lungo i cèchi li vedemmo inevitabilmente come fratelli maggiori ricchi. Tutori che ci inviarono insegnanti e amministratori, costruirono scuole e strade, allevarono anche le élite slovacche, ma tutori pur sempre. Persino sotto il comunismo, il mio professore di marxismo-leninismo alla scuola superiore, cèco, ortodosso fedele al regime, si lamentava delle “non buone relazioni” tra i due popoli».
Auto moderne, tedesche o coreane, più che a Roma, nuovi condomini di periferie ordinate, shopping center affollati, réclame di vacanze nei mari caldi. Oggi, se visiti i due ex coniugi, la nuova povertà (giovanile e non solo) di casa nostra sembra remoti. E se guidi sull’autostrada per Vienna, mèta proibita prima del 1989, devi sorpassare di continuo le bisarche di Volkswagen e Hyundai-Kia, che in Slovacchia hanno i loro siti più moderni. Difficile percepire che solo vent’anni fa gli uni vissero con entusiasmo la nascita d’una nazione, gli altri si rassegnarono a rimpicciolirsi. «L’armonia di oggi non era allora scontata», mi ricorda il filosofo Peter Michalovic: «Nella Praga di Havel la democrazia fu subito solida, qui da noi l’autoritarismo populista di Meciar ci isolò in Europa». Meciar, l’ex pugile e uomo forte dell’indipendenza, minacciava di diventare un Lukashenko sul Danubio, o almeno un Orbà n slovacco. «Rischiammo di venir tagliati fuori dall’Europa», ricorda l’economista Pavol Demes. Solo la coalizione delle forze democratiche lo rovesciò, e fu la svolta. «Da allora», ricorda Milan Uhde, ex braccio destro di Havel a Praga, «gli slovacchi hanno saputo trarre lezioni e profitto dalla separazione più di noi cèchi troppo spesso pessimisti: si sono lanciati in riforme economiche più audaci, con un boom hanno colmato il gap».
Entrambi, nella coppia divisa, si rimboccarono le maniche. Correndo fianco a fianco verso la Nato e l’Unione europea. I cèchi ritrovando anche con forti investimenti tedeschi la loro antica potenza industriale, gli slovacchi reinventandosi con le porte aperte della minitassazione ai big global players dell’auto e dell’elettronica, in sinergia con l’economia cèca. «Così nacquero da radici antiche due identità nazionali affiancate e tranquille, prive di animosità », nota Michalovic. Fu un successo di vite parallele, ma reso possibile anche dal gioco di squadra. «L’appoggio cèco fu vitale per il nostro ingresso nell’Unione e nell’Alleanza atlantica, nei miei anni a Praga non mi sentivo all’estero», confessa l’anziano ex ambasciatore Ladislav Ballek, inviato slovacco sulla Moldava negli annichiave. «Non dimentichiamolo mai, senza la Cecoslovacchia noi slovacchi non saremmo usciti vivi dalle tragedie dei nazionalismi estremisti del 20mo secolo», nota Ballek. Il ricordo di violenze e crimini dei gendarmi del dittatore ungherese Horthy è presente. «Perché abbiamo deciso di dividerci? Per amarci di più, e per tifare per due fortissime squadre di hockey sul ghiaccio anziché per una sola», aggiunge scherzando solo a metà .
Tutto luce e niente ombre, dunque? No, avverte il cèco Uhde: mentre in Slovacchia l’entusiasmo dell’indipendenza ha risvegliato una intelligentsia spesso passiva sotto il comunismo, a Praga gli intellettuali hanno perso il gusto dell’impegno politico. A differenza che in Polonia non hanno saputo coltivare tradizioni di élite, ciò rafforza il loro
desencanto.
«Anche Havel ebbe le sue colpe: non seppe costruire rapporti tra il suo team di dissidenti con i nuovi partiti e la nuova economia di mercato. Eppure oggi, da divorziati felici, i valori costitutivi comuni — democrazia, libertà , economia all’occidentale — sono più vivi che mai».
Senza illusioni su nulla, i divorziati felici vanno avanti fianco a fianco. Col boom di feste giovanili al confine e coppie miste, con i programmi in slovacco della radio cèca per i “cugini” assunti dalle industrie boeme e morave, oltre la frontiera aperta. «Dopo il divorzio abbiamo saputo restare una famiglia, e guardando i cèchi noi ci vediamo in due specchi: come siamo e come vorremmo essere», sorride l’ex diplomatico Ballek. Spesso all’aeroporto di Lipsia, Germania, picchetti dei due paesi attendono insieme i vecchi cargo Transall della Luftwaffe che riportano a casa i loro caduti sul fronte afgano. Mitteleuropa, gennaio 2013: la gloriosa, forte Cecoslovacchia democratica di Masaryk e Dubcek, sesta potenza economica del mondo di ieri, è morta da vent’anni eppure, nell’amicizia dei “divorziati di velluto”, a suo modo vive.
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