L’immigrato se ne va
Ci sono mille storie di paura, in via Pisa e nelle altre strade dei quartieri Pio X e Santa Bona. Paura di non farcela, di tornare a casa la sera e ancora una volta dire alla moglie e ai figli che «non c’è nulla di nuovo, il lavoro non si trova». C’è un rumore diverso da prima, dentro tanti appartamenti. Non ci sono più cucina, sala con la tv, camere dei grandi e dei piccoli… Adesso, in ogni stanza c’è una famiglia diversa, e a volte si litiga per l’uso della cucina o della lavatrice. Appartamenti solo per donne e bambini accanto ad appartamenti solo per uomini. La crisi che pesa sulle famiglie italiane riesce a distruggere quelle famiglie straniere che erano arrivate qui per cercare Lamerica e l’avevano trovata. «Fra pochi giorni — dice Quasime, senegalese — io vado in Francia. Lavoravo come saldatore e da un anno non ho più una busta paga. Lascio qui la mia famiglia, moglie e tre bambini, ma per spendere meno l’ho messa con le mogli e i figli di due mie amici del Senegal».
«C’è anche chi ha fatto una scelta diversa — continua Quasime — la famiglia torna in Africa e gli uomini restano qui, uno o due per stanza, così con cento euro al mese riescono a pagarsi l’affitto».
La crisi fa tornare indietro l’orologio di trent’anni. «Tornano a riempirsi — raccontano Ahmadou Tounkara, maliano, e don Davide Schiavon, operatore e direttore della Caritas di Treviso — anche le case coloniche abbandonate. Come negli anni ‘90, quando arrivò la prima grande immigrazione e non c’era un rudere vuoto. Gli uomini che restano qui da soli cercano di sopravvivere lavorando in nero in campagna o nell’edilizia, come allora. Questa è una crisi che spacca dentro e toglie le forze, perché travolge anche chi aveva assaggiato il benessere. Colpisce uomini che, arrivati dall’Africa o dall’Asia, avevano costruito qui le loro famiglie. In questa terra erano nati i loro figli. Operai ma anche imprenditori, con il mutuo per pagarsi la casa e con progetti precisi: restare qui in Italia per sempre e tornare in Marocco o Bangladesh solo in vacanza, per salutare i parenti e fare vedere a tutti che la loro impresa era riuscita».
Perlaprimavolta,nell’annoche si è appena chiuso, al centro di ascolto della Caritas la richiesta di un lavoro ha superato quella di un aiuto, in viveri per mangiare o soldi per pagare una bolletta o un affitto. «Sono uomini e donne che si vergognano, quasi chiedessero l’elemosina. Chiedono anche consigli,sucomecomportarsicon i figli, che si sentono italiani e adesso ascoltano il loro papà che dice: torniamo in Ghana».
Storie tutte diverse e tutte piene di angoscia. «I miei figli — dice Amidou del Burkina Faso — sono ormai grandi. Quando ho detto che dovevano tornare a casa, mi hanno detto che non sono pacchi. Gli unici soldi adesso li porta mia figlia grande che ha trovato lavoro part time in un ristorante, gli altri due figli vanno a scuola. Io mi sto informando per andare in Germania, là le fabbriche sono ancora aperte». «La mia famiglia l’ho mandata in Senegal — racconta Ousmane — e io vivo in un appartamento con altri cinque messi male come me. Mi vergogno perché, a fine mese, non riesco a mandare un soldo a casa, ma in quest’ultimo mese ho lavorato come imbianchino solo quattro giorni».
Nascono le trafile, come un tempo per gli emigrati italiani. «Mio cugino — dice Abdelkabir, marocchino — ha trovato lavoro in Francia, come cameriere. Sta cercando un posto anche per me. Non ce la faccio più a tornare a casa senza aver guadagnato nulla. I miei figli non fanno nemmeno più domande. Mi guardano, capiscono e sono sempre più tristi». «E pensare — dice Abdallah Kherzraji, marocchino, vice presidente della Consulta regionale per l’immigrazione — che a noi marocchini la fantasia non manca. Visto che in Italia il commercio è in crisi, tanti si sono organizzati per andare a fare i venditori in Marocco. Ogni settimana, al martedì, venerdì e sabato partono da Genova, in nave, dai 200 ai 500 furgoni carichi di merce comprata in Italia. Vanno a vendere là dove il Pil nel 2012 è salito del 3,8%. Insomma, ci si arrangia. Ma molti sono quelli che hanno perso il lavoro in fabbrica, o hanno chiuso la piccola azienda, che tornano a casa prima di finire i risparmi di una vita o cercano un futuro all’estero. In Francia, Germania, Olanda e Belgio c’è ancora un welfare robusto. C’è un aiuto serio per trovare la casa e il lavoro. Per un anno, in attesa di una sistemazione, puoi contare su un contributo di 200 euro al mese per ogni bambino.
Insomma, chi ha due o tre figli riceve quasi un salario».
Abdallah Khezraji, arrivato in Italia nel 1989, ha fatto l’operaio e l’imprenditore e oggi è mediatore culturale e leader dei 90.421 stranieri presenti in provincia di Treviso. C’è però chi svolge la stessa attività ed è costretto comunque a una nuova emigrazione. «Faccio anch’io il mediatore culturale — racconta Hamadi Ben Mansour, tunisino con cittadinanza italiana e presidente di El Medina, associazione impegnata a Mantova nella mediazione socio culturale — ma non riesco più a mantenere la famiglia. Dovrò andarmene anch’io, come tanti miei amici. Io credo che queste partenze siano una perdita per la città che sentiamo come nostra. Sono già tornati in Tunisia o Marocco l’autotrasportatore che aveva anche dipendenti italiani, il commerciante di auto, l’amico che aveva tre macellerie (anche lui con dipendenti italiani) e tanti altri imprenditori e operai. Il ministero del Lavoro tunisino ha appena dichiarato che servono 120.000 operai, nelle nuove imprese. Chi potesse investire 50.000 euro, nel mio Paese, potrebbe aprire una piccola fabbrica e sarebbe un signore. Ma dopo 22 anni in Italia io non ho risparmi. Sono già stato in Belgio, Olanda e Germania a cercare
qualcosa da fare. Lascerò Mantova con l’amaro in bocca,è una città che mi ha dato tanto».
«Già dal 2004 — racconta don Giovanni Sandonà , responsabile regionale della Caritas in Veneto — a Vicenza organizziamo i rimpatri “mutuati”, cioè condivisi. Donne con figli ma anche uomini in situazione di esclusione sociale grave, come alcolisti, dipendenti da droghe. Con la collaborazione dei Comuni riusciamo a preparare un progetto vero, che permetta un futuro nella terra di origine. Gli immigrati sono stati i primi a essere colpiti dalla crisi e anche oggi stanno pagando più di tutti».
Uomini e donne che camminano sul filo del rasoio. «A Bologna — racconta Roberto Morgantini, che per anni ha guidato l’ufficio stranieri della Cgil e ora è vice presidente di Piazza Grande, associazione dei senza fissa dimora — tante famiglie si sono spezzate. Mohamed ha mandato la sua famiglia in Marocco, dopo avere perso il suo lavoro da metalmeccanico, ed è partito per la Francia. Se troverà un salario e una casa, richiamerà moglie e figli. Adamin, del Bangladesh, ha perso l’appartamento perché senza lavoro non riusciva più a pagare l’affitto. Ha messo i bambini in un istituto di suore e lui vaga per la città a cercare qualcosa fa fare. Come Piazza Grande, abbiamo “adottato” una di queste famiglie disperate, l’abbiamo chiamata “famiglia K”. Vogliamo raccogliere 6.000 euro — per ora ne abbiamo la metà — per pagarle un anno di affitto. Adesso vivono in un dormitorio pubblico, alle 8 del mattino debbono uscire. Non vogliono tornare nel loro Paese, il Pakistan, perché là non hanno più nessun legame. Quelli che, dopo il permesso di soggiorno, hanno conquistato la “Carta di lunga durata”, sono partiti per la Francia, la Germania, l’Inghilterra. Non cercano l’Eldorado, il salario è simile a quello che avevano in Italia. Ma là almeno il lavoro si trova».
Storie di dolore in quello che era il ricco Nord. «Il dramma più pesante — dice Gianmarco Marzocchini della Caritas di Reggio Emilia — è quello dei bambini e ragazzi che vengono tolti dalle scuole per andare nei Paesi dei genitori, che spesso non hanno mai visto». «Io ho mandato mio figlio di 8 anni — racconta Adnan C., albanese — a Scutari, con mia moglie. Da quando è là vuole sempre stare solo. E ha smesso di parlare».
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