«Si può creare un milione di posti»
ROMA — Un grande Piano per il lavoro per rispondere alla crisi, cambiando il paradigma delle ricette di politica economica seguite finora. Non più solo il rigore, che ha avvitato in una spirale recessiva l’Europa e l’Italia in particolare, ma un forte rilancio della riqualificazione e della crescita del sistema produttivo, centrato su un mix di politiche keynesiane e schumpeteriane. Da un lato classici interventi di rilancio della domanda e dell’occupazione finanziati con spesa pubblica. Dall’altro una «politica industriale per riqualificare l’offerta», manovrando la leva fiscale e quella degli incentivi alle imprese, ma anche attraverso una «Banca nazionale per l’innovazione» a maggioranza pubblica.
Il Piano per il lavoro, che la confederazione sindacale guidata da Susanna Camusso sta preparando da quasi un anno, e che è sostanzialmente pronto nei testi e nelle slide (una ottantina) che li accompagnano, sarà al centro della Conferenza di programma, il 25 e 26 gennaio al Palalottomatica di Roma. L’appuntamento più importante della Cgil tra un Congresso e l’altro era stato programmato da tempo, ma ora assume maggior rilievo, svolgendosi nel pieno della campagna elettorale.
Una strategia per la sinistra
Il Piano per il lavoro, che si richiama all’analogo documento presentato nel 1949 dal carismatico segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio al congresso di Genova, punta anche questa volta a offrire un orizzonte strategico non solo al sindacato rosso ma a tutta la sinistra. Al Palalottomatica interverranno il candidato del Pd a Palazzo Chigi, Pier Luigi Bersani, e il leader di Sel, Nichi Vendola. E probabilmente anche Fabrizio Barca, ministro per la Coesione, destinato a un ruolo di spicco in un eventuale governo della sinistra o, in alternativa, ai vertici del Pd. Tutti interlocutori che non potranno non tener conto nei loro programmi delle proposte della Cgil.
Un milione di posti di lavoro
Per illustrare subito le conclusioni cui giunge il Piano, si può dire che, secondo la Cgil, se venisse adottata una nuova politica economica e fiscale, si potrebbe avere, al posto della recessione, destinata a durare anche quest’anno, una crescita del Prodotto interno lordo già nel 2013 dell’1,6% e poi dell’1,5% nel 2014 e dell’1% nel 2015. E l’occupazione, anziché continuare a diminuire quest’anno di un altro 0,4%, salirebbe dell’1,5%, qualcosa come 350mila posti di lavoro in più e così, più o meno, nei due anni successivi, per un totale di un milione di posti di lavoro nel triennio. Ma da realizzare, evidentemente, con ricette molto diverse da quelle berlusconiane.
La Cgil punta su un «Progetto Italia» per lo sviluppo e l’innovazione, su un «Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro» e su un «Piano per un nuovo Welfare» che abbia come priorità quattro settori: «Infanzia, non autosufficienza, povertà e integrazione».
Patrimoniale e lotta all’evasione
Va subito detto che, per realizzare quel «Big push» sul «modello New Deal» di rooseveltiana memoria di cui si parla nel Piano e che ispirò anche quello di Di Vittorio, la Cgil propone una forte riforma del sistema fiscale capace di portare nelle casse dello Stato «almeno 40 miliardi di euro annui» in più di ora, attraverso una patrimoniale sulle grandi ricchezze, un aumento dell’imposizione sulle transazioni finanziarie, l’introduzione di tasse ambientali («chi inquina paga»), un «piano strutturale di lotta all’evasione fiscale, contributiva e al sommerso» che impiega oggi circa 3 milioni di lavoratori. Il nuovo Fisco dovrebbe pesare di meno su dipendenti e pensionati, per i quali si propone il taglio di due aliquote Irpef (la prima dal 23 al 20%) e la terza (dal 38 al 36%), l’aumento delle detrazioni specifiche e dei sostegni per i carichi familiari.
Accanto alla riforma fiscale, secondo la Cgil è possibile ridurre la spesa pubblica di 20 miliardi, tagliando tra l’altro 10 miliardi di incentivi alle imprese. E si potrebbero recuperare 10 miliardi da un miglior utilizzo dei fondi europei. Insomma, in un arco pluriennale (3-5 anni) l’obiettivo è raccogliere circa 80 miliardi di risorse da impiegare nella crescita.
Posti pubblici, incentivi privati
Dai 4 ai 10 miliardi annui dovrebbero andare agli interventi prioritari del «Programma Italia»: green economy, innovazione manifatturiera, efficienza energetica (smart grid), agenda digitale, infrastrutture, prevenzione antisismica, messa in sicurezza dell’edilizia scolastica, riorganizzazione del ciclo dei rifiuti, diffusione della banda larga, percorsi turistici integrati, trasporto pubblico sostenibile, sviluppo rurale. Come si vede, si tratta di un vasto programma di lavori pubblici e di incentivi alle imprese per promuovere innovazioni che altrimenti non verrebbero intraprese. Nel piano della Cgil tutto questo dovrebbe avvenire non solo dall’alto verso il basso, ma anche al contrario attraverso una forte azione di contrattazione territoriale tra istituzioni locali e parti sociali. Dai 15 ai 20 miliardi l’anno sarebbero invece destinati alla «creazione diretta di lavoro». Anche qui un mix di assunzioni nel pubblico, negli stessi programmi di cui sopra, e di incentivi alle assunzioni e alle stabilizzazioni nel privato. Con particolare attenzione all’occupazione giovanile e femminile. Si propongono quindi programmi di manutenzione, bonifica dei siti industriali inquinati, conservazione del patrimonio culturale, riqualificazione urbana, valorizzazione di parchi e riserve naturali. Tra i 5 e i 10 miliardi andrebbero al sostegno all’occupazione (stabilizzazione) e agli ammortizzatori sociali. Altri 10-15 miliardi al potenziamento del Welfare e 15-20 miliardi al taglio delle tasse su dipendenti e pensionati.
Una crisi che viene da lontano
A supporto della proposta di cambiare le politiche seguite finora il Piano per il lavoro contiene un’analisi delle cause del declino dell’Italia. Che sono di tipo strutturale e vengono da lontano. A partire dal nanismo delle nostre imprese, che le rende meno produttive e competitive sui mercati internazionali. Le «politiche neoliberiste, fondate sull’alleanza tra profitto e rendite a scapito del lavoro», hanno fatto il resto. La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha trovato l’Italia più debole dei nostri concorrenti. E le politiche di austerità hanno prodotto una recessione più grave del previsto, come riconosce ora anche il Fondo monetario internazionale. È necessario cambiare. Coniugare politiche schumpeteriane di selezione e miglioramento qualitativo dell’offerta (innovazione prima di tutto) e politiche keynesiane di rilancio dei consumi è possibile, secondo la Cgil. Anzi è l’unica via per uscire dalla crisi. Che poi nell’Unione Europea ci siano gli spazi di manovra necessari è tutto da verificare. Ma è chiaro che il primo destinatario del Piano del lavoro della Cgil non è l’Ue bensì il Pd.
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