Avvocati e consulenti, se il candidato è in «conflitto»

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ROMA — Mai come adesso un check up serio e approfondito delle candidature è necessario. In tutti i partiti, e non soltanto nella lista di Mario Monti. Che da questo punto di vista può certamente rivendicare un merito: quello di aver introdotto fra i criteri per passare l’esame dell’ex commissario Parmalat Enrico Bondi l’assenza di conflitti d’interessi. Un tumore troppo spesso liquidato come un fastidioso dettaglio cui gli italiani non sarebbero affatto appassionati, che invece ammorba da vent’anni la nostra politica: e adesso è arrivato il momento di sradicare del tutto. Ma in che modo?
Il fatto è che il check up non garantisce che il problema si possa verificare in seguito, dopo l’ingresso dei candidati in un Parlamento che si profila ad alto rischio di conflitti d’interessi professionali ancor più dell’attuale per l’effetto del reclutamento di personalità  della cosiddetta società  civile. Da imprenditori come Alberto Bombassei (lista Monti), già  candidato alla presidenza di Confindustria e proprietario della Brembo, ma impegnato anche nei consigli di Fiat Industrial, Atlantia, Pirelli e Italcementi, all’ex direttore generale di viale dell’Astronomia Giampaolo Galli (Partito democratico), fresco di nomina nel consiglio di Fondiaria Sai.
Né l’impegno tutto anglosassone di cedere le partecipazioni a un blind trust o astenersi dal voto, imposto dal premier ai suoi candidati nel caso in cui questi si trovassero in situazioni di contrasto sedendo in determinate commissioni, può essere considerato del tutto risolutivo. La storia recente dice che il conflitto d’interessi assume nel nostro Parlamento forme particolarmente scivolose. Soprattutto fra i professionisti. Già  adesso, nelle Camere appena sciolte, si contano 130 avvocati: è la categoria più numerosa insieme a quella di quanti si dichiarano «imprenditori» (116 fra Camera e Senato) ma anche quella più esposta ai conflitti. Siccome non esiste una regola che vieta l’esercizio privato della professione legale durante il mandato, capita che gli avvocati scrivano leggi ed emendamenti che poi applicano in tribunale a vantaggio dei propri assistiti. Una questione annosa, cominciata già  nel 1861 con il primo Parlamento unitario: anche allora gli avvocati erano lo stesso numero di oggi, risultando la lobby più rappresentata. E non è un caso che tra i parlamentari attualmente più ricchi ci siano proprio i legali. Nel 2010 l’avvocato Giuseppe Consolo, ora candidato nella lista Con Monti per l’Italia dichiarava al fisco 2,3 milioni. Due milioni, invece, era il reddito di Giulia Bongiorno: anche lei in lizza nello schieramento che sostiene il premier. Ma non si potevano lamentare nemmeno gli avvocati Maurizio Paniz (1,7 milioni) e Niccolò Ghedini (1,3 milioni), fedelissimi berlusconiani. Per dire come sono cambiate le cose, nella lista dei parlamentari più ricchi trent’anni fa il primo avvocato era il principe del Foro Giuliano Vassalli, che dichiarava l’equivalente di 318.360 euro attuali: un settimo di Consolo.
Oggi, poi, agli avvocati si possono aggiungere i 37 «consulenti» e i 23 «commercialisti». Per non parlare dei 54 medici. Va da sé che tecnici e professionisti, in mancanza di paletti che impediscano loro di continuare l’attività  una volta eletti, o di una decisione personale, siano teoricamente esposti al conflitto. Vale per chiunque. Vale per il partito del Cavaliere proprietario di un impero mediatico, tradizionalmente pieno zeppo di avvocati e «imprenditori», dove la pelosa faccenda è sempre stata da tutti liquidata facendo spallucce. Vale per i candidati montiani qual è, solo per fare un esempio, il giuslavorista Pietro Ichino, titolare di un affermato studio professionale (Ichino-Brugnatelli & Associati) nella cui sede milanese si è tenuta giovedì scorso la conferenza stampa di presentazione del «tridente» di candidati della lista dell’ex rettore della Bocconi per la Lombardia. Vale per gli esperti arruolati dal Partito democratico, come l’ex presidente dell’Aran Carlo Dell’Aringa: consigliere di sorveglianza della Banca Popolare di Milano nonché azionista di una società  di consulenza e ricerche (Ref ricerche srl) insieme a personalità  del calibro dell’ex sindaco di Piacenza Giacomo Vaciago e dell’economista Giangiacomo Nardozzi, stimatissimo anche da Luca Cordero di Montezemolo. Come vale anche per tutti gli altri partiti. Senza eccezione alcuna.
La trasparenza, se tutti sottoscrivessero un impegno a pubblicare online non soltanto i redditi ma anche i propri interessi economici e rapporti d’affari, potrebbe fare molto. Ma la soluzione radicale che farebbe venir meno ogni rischio di conflitto d’interessi sarebbe l’introduzione di una norma copiata da quella in vigore per il Congresso statunitense, secondo cui durante il mandato parlamentare non si può esercitare altra attività  che generi introiti superiori al 15 per cento dell’indennità . Se avessimo una legge simile, in 186 avrebbero già  dovuto lasciare Camera o Senato. La proposta l’ha depositata a Palazzo Madama, il 4 maggio del 2011, un senatore del Pd. È l’ex tesoriere del partito, quando c’era al timone Walter Veltroni. Si chiama Mauro Agostini e non è stato ricandidato. L’esame del suo disegno di legge non è mai iniziato.


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