LO STRABISMO DI NIETZSCHE

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Se c’è un punto su cui sembra dominare un consenso incondizionato, tra amici e nemici, è il fatto che Nietzsche sarebbe il padre del relativismo postmoderno, attraverso la dissoluzione delle nozioni di verità  e di oggettività . Per cui Nietzsche si perderebbe in una “contraddizione performativa” (cioè, in poche parole, in uno strabismo tra il dire e il fare): in nome di una verità  più profonda dissolve la verità , in nome del riconoscimento della autentica struttura dell’universo, la volontà  di potenza, critica l’oggettività  della scienza. Trovandosi alla fine intrappolato in un labirinto da cui non riesce a venir fuori. Ma siamo sicuri che sia così? Prendiamo due testi di epoche molto differenti apparsi in questi giorni, Il crepuscolo degli idoli, nella nuova e riccamente commentata edizione a cura di Chiara Piazzesi e Pietro Gori (Carocci), e
Il servizio divino dei greci uscito da Adelphi, con una illuminante postfazione del curatore, Manfred Posani Là¶wenstein, e con una nota di Giuliano Campioni.
Il servizio divino dei greciraccoglie gli ultimi due corsi tenuti a Basilea da Nietzsche prima di abbandonare l’insegnamento, nel 1875-1876 e nel 1877-1878. In mezzo c’è il soggiorno a Sorrento e la stesura di Umano troppo umano, ossia il passaggio dalla filologia alla filosofia, in quello che viene solitamente definito il periodo “illuministico” di Nietzsche, quando filosofare significa portare lo sguardo di una ragione disincantata su ciò che sembra sublime e magari divino mentre è, appunto, troppo umano. Ebbene, in questi corsi Nietzsche — come già  nella
Nascita della tragedia ma servendosi ora con abbondanza di materiali etnografici — studia i greci fuori da qualunque classicismo, e li concepisce come una tappa della cultura indoeuropea della casta. Più che gli inventori della democrazia, che è già  decadenza, i greci sono i teorici dell’aristocrazia braminica.
Nietzsche rassegna le dimissioni dalla cattedra di Basilea nel 1879, e in un decennio di vagabondaggio tra la riviera francese e italiana, la Svizzera e, infine, Torino, elabora la sua filosofia.
Il crepuscolo degli idoli ne è la sintesi e il documento terminale, la scatola nera, potremmo dire, prima del crollo psichico che ha luogo tra la fine di dicembre 1888 e i primi di gennaio del 1889. Qui dunque vediamo orchestrati tutti i temi della filosofia nietzschiana, che si condensano in una pagina famosa, «come il mondo vero “finì” per diventare una favola», dove si raccontano le tappe che dal cosmo aristocratico di Platone, in cui la verità  si identifica con l’autorità , conducono — sulla via di un declino travestito da progresso — al venir meno della verità . L’ultima stazione recita: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» Qui c’è qualcosa che suona strano. Nietzsche sta raccontando la storia di un errore e di una decadenza
(attraverso il cristianesimo, il kantismo, il positivismo), eppure all’ultima stazione del viaggio dice che assistiamo all’“apogeo dell’umanità ”. E uno si può chiedere: che razza di apogeo può esserci ad aver perso tanto il mondo vero quanto quello apparente? La contraddizione si risolve considerando che le ultime parole dell’apologo sono, in maiuscolo, INCIPIT ZARATHUSTRA. Come dire che dopo il lungo errore che consisteva nel cercare la verità  come oggettività , una umanità  eletta capisce che non c’è né mondo vero né mondo apparente, ma solo volontà  di potenza, e l’oggettività  viene sostituita dall’autorità , da Zarathustra come profeta di una nuova religione e di un nuovo ordinamento per caste. Ben lungi dal propagandare la relatività  dei valori, il pensiero di Nietzsche trova il suo filo conduttore nella gerarchia, dai primi lavori filologici su Teognide, cantore dell’aristocrazia dorica, sino alla lettura appassionata del Codice di Manu, il testo sacro induista.
A questo punto, i conti tornano, e non c’è alcuna contraddizione performativa. Non abbiamo a che fare con una aporia del relativismo, visto che, in senso stretto, non c’è nulla di relativistico nella prospettiva di Nietzsche, che identifica la verità  con l’autorità . L’aporia, semmai, sta nell’idea di emancipazione. Perché Nietzsche, in perfetta buona fede, ritiene di stare avanzando delle prospettive emancipatorie: in effetti, si potrebbe osservare che non c’è liberazione maggiore, non c’è emancipazione più iperbolica di quella che ci toglie di dosso il peso della verità  e della oggettività . Ma il problema, ovviamente, resta aperto e si sposta. Trasformandosi in due interrogativi politicamente ben più scottanti (e drammaticamente attuali) di quanto non lo siano i dibattiti un po’ logori sul relativismo: una emancipazione dalla verità  è davvero una emancipazione? E, soprattutto, è davvero emancipazione una libertà  riservata soltanto al superuomo?


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