Elezioni in Israele, al centro la questione insediamenti
Una società certamente viva e attiva però sempre più militarizzata: alla ricerca di un nuovo equilibrio politico e culturale nonché demografico, Israele è scosso negli ultimi anni di ondate di orgoglio identitario che minano il fondamento laico dello Stato.
I sondaggi sulle elezioni danno per sicuro che la destra Likud-Beitenu avrà la maggioranza relativa (tra 26 e 34 seggi su 120), mentre il secondo partito dovrebbero essere i laburisti della Iacimovich ed i religiosi ortodossi moderati a Bait Aieudi (la casa ebraica) capitanati dalla rivelazione degli ultimi giorni Naftali Bennett. Vi sono poi tre o quattro partiti centristi laici che probabilmente otterranno seggi. I due partiti degli ultraortodossi rimarranno con i loro circa 15 ed i partiti arabi con i loro circa 10 seggi. Il partito più rappresentativo risulta essere quello degli indecisi o addirittura di quelli che hanno deciso di astenersi.
La situazione regionale appare cristallizzata. Lo Stato ebraico sta da troppo tempo alla finestra, in attesa. Aspettando che si faccia chiarezza in Egitto oppure che si giunga finalmente alla caduta del regime di Assad, il governo appare sordo a qualsiasi approccio innovativo e immobile con un atteggiamento a parole feroce e determinato, ma nei fatti succube degli eventi. Resta poi l’incognita iraniana. Il programma nucleare continua imperterrito e tutti ormai sono concordi nel ritenere che non sia soltanto a fini civili. Lasciare che l’Iran si doti della bomba atomica? Oppure fermarlo con una guerra su larga scala dagli esiti imprevedibili? Sembra che non ci sia una terza alternativa a queste due opzioni. Tuttavia i militari israeliani sono completamente ostili a questa eventualità giudicando una guerra aperta come un gesto avventato e controproducente.
Intanto il tempo scorre inesorabile senza che avvenga un fatto risolutivo. Tuttavia rispetto alla retorica bellicista di qualche settimana fa sotto traccia il dialogo con l’Iran continua, mentre si intensificano le pressioni della comunità internazionale. Certamente si percorrono strade già battute – quelle delle sanzioni, degli embarghi, delle minacce di interventi militari – che non hanno quasi mai dato esiti positivi. Scenari di un accordo globale che preveda una denuclearizzazione regionale, progetti di sviluppo che diminuiscano la dipendenza dal petrolio, la diffusione della cultura della pace e della convivenza, non sono all’ordine del giorno né delle cancellerie occidentali né delle autocrazie mediorientali. In questo modo la situazione non si sbloccherà mai.
Così sta avvenendo pure nei rapporti con i palestinesi. Il recente scoppio di violenza intorno alla striscia di Gaza ha reso evidenti alcuni punti deboli di Israele: l’esposizione di parti sempre più estese di territorio ai missili di Hamas rende la popolazione esasperata; l’inadeguatezza della strategia militare di contrasto all’insorgenza palestinese (bombardamenti, omicidi mirati, minacce di invasione terrestre) implica l’impossibilità anche solo di tentare di risolvere alla radice il problema.
Nel frattempo, il progetto che agita il mondo politico israeliano in questa vigilia elettorale riguarda le costruzioni nella cosiddetta zona 1 che collegherebbe Gerusalemme con Male Adumim una delle città israeliane costruite nella West Bank. Questi nuovi edifici renderebbero quasi impossibili per i palestinesi i collegamenti fra la parte Nord ed il centro nord del West Bank con la parte sud. I vari partiti hanno espresso ognuno le loro opinioni sfavorevoli quelli della sinistra favorevoli quelli della destra ed impenetrabili quelli del centro. L’opinione pubblica internazionale, Obama in testa, si è espressa in maniera assolutamente contraria a questa iniziativa considerata come una vendetta contro la comunità internazionale per l’approvazione della appartenenza della Palestina come Stato non membro all’assemblea delle Nazioni Unite. Il fatto nuovo che incrina un consenso all’interno di Israele solamente di facciata è stato quello della rivolta degli ambasciatori israeliani nel mondo contro questa decisione.
Si è tenuta il 30 dicembre a Gerusalemme una riunione di tutti questi ambasciatori, l’ambasciatore alle Nazioni Unite ha preso la parola ed ha denunciato come questa decisione ha portato ad una totale opposizione e denuncia di prepotenza da parte di tutte le nazioni del mondo che hanno presentato documenti di protesta alle ambasciate israeliane. Queste parole sono state accolte dall’unanime applauso dia parte di tutti gli ambasciatori! Il rappresentante del Ministero degli esteri israeliano si è ovviamente imbufalito ed ha detto agli ambasciatori che una presa di posizione del genere è impensabile in ogni paese democratico, dagli Stati Uniti ai Paesi europei. Chi non è d’accordo con la politica del governo può candidarsi alle elezioni in un partito politico e comunque dare le dimissioni! Un gesto comunque forte che mette i piedi nel piatto.
Da qui bisogna ripartire. Scrive il romanziere Yehoshua: “Di fronte alla costante e mal dissimulata crescita degli insediamenti, al mancato sgombero di avamposti illegali e soprattutto alla costruzione senza freni in zone che non hanno mai fatto parte geograficamente e storicamente della città di Gerusalemme, di fronte a un processo miope sul piano storico e demografico che negli ultimi anni ha continuato a cucire fra loro due nazioni così diverse, alle prossime elezioni bisogna presentarsi con una posizione inequivocabile che dica: «stop»”.
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