La rivincita postuma delle idee di Dossetti
Alcide De Gasperi a parte, nella storia della Dc di questo dopoguerra nessuna personalità ha lasciato una traccia importante come quella di Giuseppe Dossetti (che quest’anno, nel centenario dalla nascita, sarà ricordato con manifestazioni di grande spessore). Forse proprio per il fatto che Dossetti fu un personaggio molto particolare, spesso non in sintonia con importanti settori della Chiesa e del suo partito. Il 5 marzo del 1949, De Gasperi così gli scriveva: «Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive… ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere… e poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza».
In Vaticano su di lui qualcuno esprimeva forti dubbi. Il 6 luglio di quello stesso 1949, il futuro cardinale Giuseppe Siri, vescovo di Genova, molto ascoltato da Pio XII, si rivolgeva per iscritto a monsignor Ronca, capo del cosiddetto «partito romano», per segnalargli come la corrente «che fa capo all’onorevole Dossetti» avesse queste caratteristiche: «Organizzazione propria e piuttosto fanatica fede in colui che è riguardato ispiratore e capo; azione di punta nel promuovere riforme sociali sulla cui piena giustizia non si è concordi e tutt’altro che sicuri; azione di critica nei confronti del partito e del governo, condotta in quella forma pubblica, spettacolare ed a tinta sabotatrice». Caratteristiche che rendevano inquieti molti suoi colleghi di partito. Con queste parole il giovane Oscar Luigi Scalfaro si rivolgeva a De Gasperi il 22 luglio 1951: «Ciò che mi ha profondamente addolorato è di sapere (e vorrei così non fosse) che anche lei, presidente, considera ciascuno di noi come un dossettiano travestito, come un cripto dossettiano… mi pare poco bello che ogni critica, per serena che sia, venga conglobata nell’accusa di dossettismo». Per poi aggiungere: «Il sapere domani che una soluzione, pur ritenuta serena e oggettivamente possibile, fosse stata esclusa “per non darla vinta a Dossetti”, ci farebbe male e ci costringerebbe a gravi considerazioni e gravi conclusioni».
Dossetti seppe essere ad un tempo uomo politico e uomo di Chiesa come mise ben in evidenza un suo ex seguace, Gianni Baget Bozzo (anche lui prete e uomo politico), in Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti (Vallecchi). Piero Craveri, nel suo De Gasperi (il Mulino), riporta un appunto del presidente del Consiglio sulla «mentalità dossettiana» definita, nel gennaio del 1950, come «munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive, oltre che di un calore di sentimento e di una abilità di espressione e di manovra non comune, di fronte alla quale mancano nella direzione del partito e dei gruppi uomini forti e altrettanto suggestivi». Un rilevante personaggio che gli fu ostile, Luigi Gedda, in 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare (Mondadori), lo colloca a capo di coloro che nella Democrazia cristiana «lavoravano per un’intesa con i comunisti». Nella sua Breve storia del Concilio Vaticano II (il Mulino), Giuseppe Alberigo — che gli fu amico — lo dipinge come teologo «privato» del cardinale Lercaro e racconta di come «avviò una fitta rete di contatti con vescovi e teologi, redigendo e facendo circolare osservazioni sugli schemi preparatori… cosicché l'”officina bolognese” è stata coinvolta in un ininterrotto fiancheggiamento dei lavori conciliari». A quei tempi la sua «tana» (così la definiva lui stesso) era quella di via della Chiesa Nuova, dove Dossetti e i suoi sodali venivano ospitati da Laura e Pia Portoghesi. Monsignor Attilio Nicora, nelle sue memorie, attribuisce grande importanza a quel «salotto rosso di Chiesa Nuova… dove Einaudi divenne presidente della Repubblica e Giorgio La Pira distribuiva le sue profezie».
Adesso Paolo Pombeni, che di lui si occupa da quarant’anni, in un importante studio in uscita dal Mulino, Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano, torna su quella figura che, scrive, è stata, a suo giudizio, soprattutto nell’ultimo periodo di vita (è morto nel 1996) «assai fagocitata da interpretazioni e strumentalizzazioni politiche più o meno di parte», ma che «pone ancora molti problemi interpretativi allo studioso di storia». Effettivamente Dossetti ha avuto un ruolo di primo piano in questo dopoguerra. Fu uno dei principali artefici della Costituzione; fu l’inventore di Amintore Fanfani, che però entrò nell’empireo della Repubblica staccandosi da lui (con Dossetti, Fanfani intrattenne un complesso rapporto per certi versi simile a quello che, nel secolo precedente, Francesco Crispi aveva avuto con Giuseppe Mazzini); tenne a battesimo una generazione di politici e intellettuali democristiani che avrebbero avuto un grande ruolo nella prima e nella seconda Repubblica (nella seconda — come diremo — ancor più che nella prima); fu, negli anni del centrismo, più che diffidente nei confronti dei partiti laici (anche se ebbe una parte decisiva nel far salire al Quirinale Luigi Einaudi); avversò quelli che molti anni dopo sarebbero stati definiti i «poteri forti» e successivamente nutrì scarsa simpatia per l’avventura referendaria dei radicali; ebbe un rapporto complesso con i comunisti, dai quali però non fu mai riamato; fu ostile, in campo internazionale, agli Stati Uniti e, in modi eclatanti, ad Israele.
Fondamentale fu, secondo Pombeni, la sua formazione. Terminato il liceo, Dossetti nel 1930 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna ed entra nell’Azione cattolica sotto la guida di don Dino Torreggiani. Seguirà il corso di Arturo Carlo Jemolo, al quale chiederà la tesi su «La violenza nel matrimonio canonico» (anche se il professore non la potrà poi seguire perché chiamato, nel 1933, ad insegnare nell’ateneo di Roma). Jemolo ricorderà sempre quel suo studente e molti anni dopo, il 17 maggio del 1972, gli darà — su «La Stampa» — un clamoroso «riconoscimento» muovendo a Paolo VI un severo rimprovero perché non aveva avuto il «coraggio» di nominarlo vescovo.
Laureato, Dossetti nel novembre del 1934 si trasferisce alla Cattolica di Milano, assai ben accolto dal rettore, padre Agostino Gemelli. Le sue prime esperienze sono state raccontate con dovizia di particolari da Enrico Galavotti in Il giovane Dossetti (il Mulino), quello stesso Galavotti che sta per dare alle stampe (sempre per i tipi del Mulino) Il professorino, quasi mille imprescindibili pagine dedicate alla vita di Dossetti tra il 1940 e il 1948, dalla «crisi del fascismo» alla «costruzione della democrazia». Galavotti racconta come il giovane Dossetti abbia tessuto rapporti di amicizia con Antonio Amorth, Luigi Gui e soprattutto Giuseppe Lazzati. Nel 1936 è ammesso, assieme a Lazzati, in un sodalizio di laici consacrati fondato da padre Gemelli: i Missionari della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Lì conoscerà Luigi Gedda (il futuro fondatore dei Comitati civici, che avranno un ruolo determinante nel far stravincere alla Dc le elezioni del 1948), nominato da Gemelli alla guida dell’organizzazione. Sarà antipatia a prima vista: con Gedda, prima Lazzati, poi lui stesso, entreranno fin da allora in conflitto. In quello stesso anno diventa assistente volontario alla cattedra di Diritto canonico retta da Vincenzo Del Giudice (che era stato con Gemelli nell’ala destra del Partito popolare, aveva firmato nel 1925 il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce e nel 1941 avrebbe abbandonato la Cattolica in aperto dissidio con lo stesso Gemelli). Dall’ottobre del ’41 entra a far parte di un gruppo di persone (Amorth, Lazzati, Fanfani, Sofia Vanni Rovighi, don Carlo Colombo, il gesuita padre Carlo Giacon e talvolta Giorgio La Pira) che ogni venerdì si riuniscono a casa di un docente della Cattolica, Umberto Padovani, per parlare soprattutto di Jacques Maritain e del suo Umanesimo integrale (pubblicato nel ’36), della «crisi indotta dalla guerra» e di cosa accadrà «dopo». Dopo la guerra certo, ma anche — man mano che le cose si fanno più chiare — dopo la fine dell’esperienza mussoliniana.
Ma torniamo agli anni che precedettero l’ingresso dell’Italia in guerra. Pombeni affronta senza imbarazzi quello che definisce «il problema del rapporto del giovane Dossetti con la cultura fascista dominante». Nel senso che, a dispetto del racconto dossettiano di aver maturato fin dagli anni giovanili «un irriducibile antifascismo», lo storico Paolo Acanfora ha trovato il certificato di una iscrizione di Dossetti al Partito nazionale fascista, documento rilasciato il 4 giugno del 1940 dal segretario federale di Reggio Emilia Dino Fantozzi (nel certificato si specifica che l’iscrizione al Pnf risalirebbe al 1935 e si riporta anche il numero della tessera). Pombeni spiega bene come la questione abbia un rilievo marginale, dal momento che Dossetti non fu coinvolto da una visione del mondo «veramente fascista nel senso pienamente ideologico», bensì aderì «al clima generale di una cultura con forti tratti nazionalistici e con illusioni di risposta a crisi epocali che si ritenevano in corso in Europa».
Certo è che il radiomessaggio di Pio XII del Natale 1942, nel quale il pontefice indicava ai cattolici l’«azione» come «precetto dell’ora», è colto dai frequentatori casa Padovani come il segnale che è giunto il momento di mobilitarsi. Ancora pochi mesi e, il 25 luglio del 1943, cadrà il regime fascista: il 4 agosto una circolare di Gedda avverte che potrà accadere che singole personalità cattoliche siano chiamate in politica, anche se l’Azione cattolica in quanto tale deve restare opera religiosa. Riservatamente, però, Gedda offre al capo del nuovo governo, Pietro Badoglio, il supporto strutturato della stessa Azione cattolica. Nell’autunno del 1943, l’Italia è divisa in due e al Nord si sviluppa la lotta partigiana. Dossetti, che nel frattempo è stato chiamato ad insegnare all’Università di Modena, sulle prime dubita dell’opportunità di prendere parte alla «guerra civile». Ma, come documenta Giuseppe Trotta nel libro Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello Stato (Aliberti), presto si convince che l’esperienza dei cattolici nella lotta al nazifascismo è indispensabile per «riguadagnare loro un posto centrale» nell’Italia del dopoguerra. Dal febbraio 1945 sale lui stesso in montagna e il 1° aprile di quell’anno prende parte alla battaglia di Ca’ Marastoni. Ciò che gli vale l’incarico di presidente del Cln di Reggio Emilia e quello di vicesegretario della Dc.
Da vicesegretario polemizza già allora con De Gasperi, accusandolo di aver optato nel 1946 «per una soluzione che favoriva l’esito monarchico nel referendum». Ma qui Pombeni mette in dubbio «che De Gasperi avesse tutta questa simpatia per una casa regnante come quella italiana», sostiene che fu solo «prudente» e che «l’analisi di Dossetti si rivelò errata». In realtà un ruolo fondamentale Dossetti lo ebbe, come si è detto, nei mesi successivi, quando si trattò di redigere la Costituzione. Il suo sodale La Pira si batté allo stremo per «definire un sistema integrale organico dei diritti della persona e dei diritti degli enti sociali — compresi quelli economici — in cui la persona si espande», rinviando come «modelli» alla Costituzione sovietica e a quella di Weimar, mentre ad un tempo consigliava di non farsi sedurre dal progetto francese che riecheggiava i principi costituzionali del 1789 e in quanto tale doveva «essere da tutti respinto». Rispettato dal comunista Palmiro Togliatti e dal socialista Lelio Basso, Dossetti si avvalse della collaborazione di Costantino Mortati e fu guardato con un certo riguardo anche da Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI) che, scrive Pombeni, «ebbe con lui e con il suo gruppo un rapporto non lineare ma in complesso di attenzione e di apprezzamento».
Pombeni definisce poi «una sciocchezza» quel che aveva detto Gedda e cioè che Dossetti sia stato «incline al comunismo». Quando, nel 1947, De Gasperi mise i comunisti fuori dal governo, Dossetti, scrive Pombeni, «non ebbe esitazione ad attribuirne la responsabilità alle ambiguità politiche di Pci e Psi», anche se sostenne che la Dc «poteva e doveva realizzare da sola» la politica riformatrice delle sinistre. Dossetti del resto, proprio in quel 1947, contribuì a sventare un tentativo del Pci di sostituire De Gasperi con Francesco Saverio Nitti e denunciò per l’occasione (riprendendo un’espressione di Leo Valiani) il «tentativo di connubio comunisto-capitalistico». Ma gli uomini più legati a De Gasperi, Attilio Piccioni e Umberto Tupini, diffidavano apertamente di lui e dei suoi «professorini». Più di tutti Luigi Gedda. E già alla vigilia delle elezioni del 1948, quando divenne più importante il ruolo del fondatore dei Comitati civici, Dossetti chiese a Pio XII l’autorizzazione a ritirarsi dalla vita politica. Licenza che non fu concessa né a lui né a Giuseppe Lazzati, il quale aveva avanzato la stessa richiesta (i due ne parleranno diffusamente nell’intervista a Pietro Scoppola e Leopoldo Elia pubblicata dal Mulino con il titolo A colloquio con Dossetti e Lazzati).
Ma l’anno davvero complicato fu il successivo: il 1949. A marzo Dossetti si mise di traverso alla decisione di far aderire l’Italia al Patto atlantico. Alla fine votò a favore, ma «controvoglia» e rilasciò al giornale del suo partito, «Il Popolo», una dichiarazione maliziosamente superflua, in cui diceva di aver votato in quel modo nella convinzione che la Nato dovesse essere «una costruzione assolutamente difensiva, pacifica e democratica». A giugno, in occasione del Congresso di Venezia, pronunciò un discorso interamente rivolto alla «classe operaia» da conquistare, anzi che doveva essere «liberata dal Partito comunista». Discorso che voleva essere di «pungolo» alla Dc e si concludeva con l’appello ad «un atteggiamento altrettanto virile verso i ceti conservatori di quello che noi prendiamo — e l’abbiamo sempre preso — nei confronti dell’estrema sinistra». De Gasperi si spazientì e gli rispose: «È vero che ogni governo ha bisogno di un certo stimolo, se volete, di un pungolo (non mi piace la parola, perché ricorda i buoi), ma comunque io accetto anche il pungolo ad una condizione, che a un certo momento quelli che stanno pungolando scendano dal carro e si mettano anch’essi alla stanga». Fu in questa occasione che Fanfani scese dal carro dossettiano per avvicinarsi al gruppo dirigente del partito, puntando da quel momento alla successione a De Gasperi.
E il Pci come reagì alle aperture di Dossetti? Pombeni mette in risalto come quella dei comunisti fu una sorprendente risposta di chiusura. Togliatti su «Rinascita» scrisse che l’opposizione dossettiana a De Gasperi era «di tendenze nettamente fasciste… al punto di ricalcare persino nelle parole le formule del fascismo (tutto il potere alla Dc; corporativismo economico; anticomunismo)». Pietro Ingrao sull’«Unità » accusò quel «riformatore vaticanesco» di «totalitarismo cattolico» e di «corporativismo antiautonomista». E aggiunse che, a suo avviso, Dossetti si muoveva nel solco «dei Gedda, dei Comitati civici, dei dottrinari del sacro cuore». Lelio Basso che — come Togliatti — lo aveva conosciuto e apprezzato alla Costituente, sostenne sull’«Avanti!» che «Scelba e De Gasperi, Piccioni e Dossetti, hanno espresso un unico concetto: la definitiva trasformazione della Democrazia cristiana in regime».
Paradossalmente le sinistre offrirono una sponda a quei settori che nella Dc mettevano in atto una feroce «lotta interna contro il dossettismo». Dossettismo che faceva proseliti tra i giovani e che, nel nome di una sorta di «largo ai giovani», muoveva all’attacco del quartier generale. A loro De Gasperi rispondeva con parole che solo in apparenza potevano apparire di semplice buon senso: «I vecchi hanno bisogno della competenza economica dei giovani; ma i giovani hanno bisogno del pensiero, autenticamente liberale, dei vecchi». Dove sarebbe da sottolineare la contrapposizione tra la «competenza economica» dei giovani formatisi negli anni del regime e il «pensiero autenticamente liberale» della classe dirigente prefascista non compromessa, a differenza della generazione dei trentenni, con il regime mussoliniano.
E siamo all’inizio degli anni Cinquanta. Dossetti è vicesegretario del partito, ma sempre più polemico nei confronti degli uomini più vicini a De Gasperi. Ai quali si è aggiunto — come bersaglio dei suoi strali — Giuseppe Pella, l’uomo degli industriali tessili di Biella, colui che di fatto era il rappresentante dei «poteri forti» di allora, definiti all’epoca «quarto partito». Crescente è anche la sua avversione nei confronti dei «parenti», i partiti laici alleati della Dc nella coalizione centrista. E anche qui De Gasperi si sentì in dovere di rispondergli: «Fantasiosa la diffida formale proposta da Dossetti per i “parenti”: abbiamo finora lottato perché forze, guadagnate alla democrazia, non tornassero indietro; ed ora vogliamo mettere in pericolo anche il restante margine diminuito di sicurezza?». Qui Pombeni interviene contro la «leggenda dell’integralismo dossettiano». Fu dipinto, scrive, «come nemico della collaborazione coi partiti laici per isolazionismo confessionale, mentre si trattava della proposizione di una linea che privilegiava la centralità e la coerenza della direzione politica… non sacrificabili alle esigenze tattiche (e talora di puro lobbismo) dei cosiddetti “partiti minori”».
Nell’ottobre del 1950, Dossetti chiede di entrare nell’istituto secolare dei Milites Christi, un sodalizio di laici consacrati fondato da Lazzati dopo l’uscita, nel 1938, da quello di Gemelli. Nel marzo del 1951 il «professorino» muove all’attacco di De Gasperi al quale, annuncia, «non darò più in nessuna maniera la fiducia». Cosa era accaduto? Pio XII aveva tolto a Montini l’incarico di sovrintendere alle «faccende italiane». Quel Mons. Montini (il Mulino) che, come documenta con grande cura Fulvio De Giorgi, nel libro che ha questo titolo, aveva con Dossetti rapporti molto profondi anche se le personalità dei due non erano sovrapponibili.
Dossetti fu portato a ritenere che l’allontanamento di Montini fosse un segno dei tempi. I tempi della guerra di Corea, per la quale, temeva, l’Occidente, nel nome della lotta al comunismo, avrebbe abbandonato la «pregiudiziale antifascista». E quando nel 1951 gli Stati Uniti riconobbero la Spagna di Francisco Franco, gli sembrò che quella fosse la prova definitiva di ciò che già da tempo andava pensando. Tra l’inizio di agosto e i primi di settembre Dossetti raccolse i suoi nel castello di Rossena (Reggio Emilia) e sciolse la corrente. «Situazione internazionale e situazione interna non sono confortanti», sosteneva, «la nuova politica americana, con la prevalenza dei generali sui politici, può lasciar intendere che la Spagna è forse un anticipo del sistema generale». I convegnisti lasciarono il castello dove si era tenuto il convegno intonando un rifacimento — di Achille Ardigò — del canto anarchico: «Addio Rossena bella, o dolce terra mia, cacciati senza colpa, i dossettian van via», che si concludeva con «repubblica borghese un dì ne avrai vergogna». Dopodiché Dossetti si dimise prima dal partito e poi da deputato.
Andrea Riccardi, in Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta (Laterza), ha ben raccontato come sbagliasse Dossetti a non fidarsi fino in fondo del leader del suo partito. Il quale, di lì a breve, dimostrò quanto fossero «errate» (la definizione è di Pombeni) analisi e previsioni del suo antagonista, respingendo l’«operazione Sturzo» mediante la quale Pio XII avrebbe voluto che la Dc aprisse, in funzione anticomunista, all’estrema destra. Rifiuto che costò a De Gasperi una drammatica rottura con il pontefice.
Successivamente, nel 1956, Dossetti fu richiamato alla politica dal cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, che lo volle come candidato per le elezioni a sindaco contro il comunista Giuseppe Dozza (episodio analizzato con cura da Mario Tesini in Oltre la città rossa. L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna 1956-1958 pubblicato dal Mulino). Il Dossetti di quel periodo, in cuor suo, piuttosto che i comunisti, da lui considerati «eretici cristiani» e ammirati per il rigore morale nonché per la dedizione alla causa, ha in antipatia i socialisti, «una componente scarsamente simpatetica col cattolicesimo politico, in quanto fortemente tributaria di tradizioni laiciste, positiviste e massoniche». Socialisti con i quali la Dc dell’epoca, guidata da Amintore Fanfani, cercava invece, faticosamente, un dialogo. Per di più Dossetti rifiuta di mettere in lista i candidati suggeriti dagli industriali e sottolinea in più di un’occasione le sue riserve verso i liberali e i socialdemocratici nonché il suo distacco da quel «blocco sociale» che si era andato costruendo dopo il 18 aprile del 1948. E i laici lo ripagarono con altrettanta diffidenza, anche da parte dei settori più illuminati.
«Per noi», scriveva la rivista «il Mulino» (a cui apparteneva anche Nino Andreatta, che pure era consulente economico del candidato sindaco), «Dossetti, oggi come oggi, non toglie nulla a quanto di equivoco e contraddittorio abbiamo sempre rilevato nel mondo cattolico e nella Democrazia cristiana in particolare… Dossetti non riesce a dissipare in noi il sospetto di un rinnovato integralismo, che non esclude il ricorso a tecniche di indagine di tipo sociologico, ma le svuota della loro criticità e della possibilità di impegnarle positivamente per l’avvio di una democrazia moderna… Dossetti non reca alcun contributo al raggiungimento di una piena consapevolezza democratica da parte dei cattolici italiani e rende più incerte le premesse e le iniziative di quella sinistra democratica che auspichiamo operante nel nostro Paese». Si distinse, in quel gruppo, un grande liberale, Nicola Matteucci, che, dopo le elezioni, riconobbe al candidato cattolico di aver aperto «una prima breccia nell’immobilismo italiano».
Durissimo, invece, l’atteggiamento del Pci, solo in parte riconducibile alla circostanza che al Partito comunista apparteneva Dozza. Il discorso di Togliatti in piazza Maggiore, a conclusione della campagna elettorale, fu sprezzante nei confronti di Dossetti come raramente lo era stato verso altri esponenti della Dc (Dossetti, in replica, si limitò a ironizzare sul fatto che il segretario del Pci avesse «speso un’ora e mezza» a parlare della sua persona). Nel corso di quella campagna, Dossetti fu dipinto dai comunisti «come l’agente o l’utile idiota della borghesia e delle classi reazionarie», fu accusato «di viltà politica perché aveva abbandonato la lotta nel 1951, ritirandosi sotto una metaforica tenda», fu messo alla berlina «come un costruttore di castelli in aria ideologici che ormai nulla avevano a che fare con il suo passato di costituente “di sinistra”». Gli si imputò persino, sempre da parte del Pci, il «tradimento» del ruolo che aveva avuto in passato, ai tempi della Resistenza.
Il candidato di Lercaro perse in quelle elezioni: la Dc prese meno del 28 per cento, i comunisti ebbero oltre il 45 e assieme ai socialisti, che conquistarono un modesto 7,2, poterono contare sulla maggioranza assoluta. Dopodiché Dossetti restò per due anni a Palazzo d’Accursio ad accusare il Pci di avere in mente una sorta di «capitalismo rosso»; e in quegli anni le ostilità nei suoi confronti di dirigenti comunisti (anche quelli, come Guido Fanti e Renato Zangheri, che in seguito avrebbero avuto un atteggiamento di dialogo) furono ai confini dell’oltraggio. Tutto ciò nonostante Dossetti, in quello stesso 1956, avesse preso una posizione molto cauta al momento dell’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici, dichiarando quella che Pombeni definisce «la sua estraneità al conflitto della guerra fredda» («Io non sono né per l’uno né per l’altro, e sinceramente io sento catene di schiavitù dall’una e dall’altra parte», disse anche in quei momenti).
Il 6 gennaio del 1959 il cardinale Lercaro lo consacrò sacerdote ed è da «monaco di Monteveglio» che Dossetti seguirà i lavori del Concilio Vaticano II, offrendo un contributo di altissimo rilievo ben messo in evidenza dagli studi di Alberigo. Fu poi, negli anni Sessanta, al fianco del cardinale Lercaro. Per lui preparò il discorso con il quale, nel novembre del 1966, il porporato accettò la cittadinanza onoraria offertagli dal nuovo sindaco comunista Fanti. Lo aiutò a scrivere l’omelia del gennaio del 1968, con la quale Lercaro condannò i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord. E fu al suo fianco un mese dopo, quando il cardinale fu tolto dalla guida della diocesi di Bologna. Dossetti interpretò quella rimozione (ancorché riconducibile, almeno in parte, a Paolo VI) come un segno di involuzione della Chiesa. E gradualmente si allontanò dall’Italia. Nell’estate del ’72 si stabilì in territorio palestinese, a Gerico. Da dove si pronunciò, in modi assai veementi, contro il governo di Israele, in particolare nel settembre 1982 dopo il massacro di Sabra e Chatila. Giunse ad imputare al primo ministro israeliano Menachem Begin l’«aggravante» di aver addossato «l’esecuzione materiale del massacro a milizie di cui si vuole per l’occasione ricordare che sono cristiane» (quello che era un semplice dato di fatto e cioè che, pur senza voler sminuire le responsabilità per omesso controllo dell’esercito guidato da Ariel Sharon, a compiere la strage erano stati i falangisti cristiani, guidati da Elie Hobeika).
Visse fino al 1996. Fece in tempo a vedere la crisi della prima Repubblica e i primi passi in politica di Silvio Berlusconi: «Mi sembra il momento di dire che c’è un’incubazione fascista», fu la sua diagnosi. Si schierò a difesa della Costituzione: «Non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi e occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti fondamentali in alcun modo modificabili», sentenziò. Ebbe accenti critici nei confronti della liberaldemocrazia, dicendosi a favore della «democrazia reale, sostanziale». Non gli piacquero, però, i radicali di Marco Pannella e criticò «la democrazia diretta nella forma referendaria che oggi è divenuta… troppo acceleratamente di moda». Così, assai più di De Gasperi, divenne — anche per il contestuale tracollo delle idee comuniste e socialiste — il principale punto di riferimento di Romano Prodi e di tutti i leader del centrosinistra nella seconda Repubblica. Una rivincita con i fiocchi.
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