I costi occulti delle bollette del gas, perché l’aumento non si ferma
ROMA — Premessa: stiamo parlando di una faccenda che muove poteri economici e interessi ciclopici. Immaginate quindi le pressioni che possono scatenare. Ma di tutti i misteri italiani quello attualmente più misterioso è la bolletta del gas. Da due anni il prezzo del metano sui mercati internazionali è in picchiata, ma 26 milioni di famiglie e quattro milioni di piccole imprese non se ne sono accorti. Anzi.
Si è provveduto, se possibile, a tosarle ancora di più: perché dal gennaio 2011 a oggi le bollette sono rincarate, tenetevi forte, del 23,7 per cento. Più o meno quattro volte l’inflazione. Tutto questo mentre il prezzo spot pagato dai venditori di gas sul mercato all’ingrosso italiano, ci spiega il superesperto della Staffetta quotidiana Gionata Picchio, è sceso di circa il 15 per cento soltanto nell’ultimo anno. Ci sono ragioni congiunturali, come la flessione della domanda europea, ma anche strutturali: per esempio la raggiunta autosufficienza degli Stati Uniti. Fatto sta che qualcuno, in questa situazione, sta facendo soldi a palate. Dall’inizio del 2011 l’Autorità dell’energia continua a rincarare i prezzi. Ed è appena il caso di notare che gli ultimi due anni sono stati i più difficili per le famiglie italiane.
L’ultimo aumento è di qualche giorno fa: +1,7 per cento. E qui la materia prima non c’entra niente. C’entra la distribuzione. Il paradosso è che meno gas passa nei tubi, più cresce il costo unitario del servizio. E dato che bisogna garantire ai distributori identici ricavi, se vogliamo che investano nella rete e facciano arrivare il metano alla caldaia, ecco che le tariffe salgono anziché scendere. Andrebbe benissimo, se non fosse per un paio di dettagli. Primo: l’infrastruttura pagata con i soldi degli utenti non è pubblica, ma resta di proprietà dei distributori privati (come i loro profitti). Secondo: il rischio d’impresa per costoro è praticamente azzerato. È il dilemma di tutte le reti, diranno gli esperti. Ma raccontatelo ai 26 milioni di famiglie di cui sopra. Soprattutto, spiegategli perché, se è vero che i criteri con i quali vengono decisi questi aumenti sono stati adottati anni fa, quando alla presidenza dell’Autorità non c’era ancora Guido Bortoni, non sono stati modificati negli ultimi due anni. Fosse solo per alleviare il peso della crisi sui bilanci familiari.
Il sistema di calcolo del prezzo della materia prima, quello invece è stato appena ritoccato. Anche qui, però, c’è qualcosa di difficile da far capire a chi si vede recapitare bollette sempre più salate. I giganti come Eni ed Enel operano prevalentemente con i contratti take or pay. Sono accordi pluriennali con fornitori internazionali, con la formula che si paga comunque, anche se il gas non viene ritirato tutto. Ne ha parlato il 16 dicembre la trasmissione Report di Milena Gabanelli, ricordando che l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni ha rinegoziato con la Russia un onerosissimo contratto take or pay prolungandone la durata a trent’anni. È accaduto nel 2009, con straordinario tempismo: poco prima della vertiginosa caduta del mercato libero.
Ebbene, proprio per tener conto di questo calo, come ha disposto il governo di Mario Monti nel decreto cresci Italia, l’Autorità ha deciso di considerare nel calcolo del prezzo anche le quotazioni spot. Oggi pesano per il 5%, contro il 95% misurato con una formula che simula il prezzo (altro mistero misteriosissimo) take or pay legato all’andamento delle quotazioni del petrolio, dell’olio combustibile e del gasolio (!). Il fatto è che il gas acquistato sul mercato spot che corre nei nostri tubi va ben oltre quel misero 5%. Di più. Picchio ricorda che secondo una recentissima indagine dell’Autorità il prezzo medio spot è stato nel 2011 e nel 2012 rispettivamente del 16% e del 26% inferiore a quello calcolato con il sistema precedente a quel contentino del 5%. Il succo è il seguente: tenere il prezzo non troppo distante da quello dei contratti take or pay limita i danni per i grandi operatori, che possono compensare le perdite di quegli accordi con i super profitti del gas acquistato sul mercato libero e fa fare un mucchio di quattrini a chi (come alcune municipalizzate) compra esclusivamente spot e vende agli utenti finali con tariffe astronomiche.
Va da sé che è una situazione insostenibile. E lo sanno anche all’Authority, tanto da aver proposto una nuova formula di calcolo per allineare il prezzo della materia prima, che pesa per circa la metà sulla bolletta, a quella del mercato libero. Finalmente, direte. E avendo saputo che la stessa Autorità ha respinto la richiesta avanzata da Scaroni di far gravare sulle tariffe le perdite generate dai contratti con la Russia (un miliardo e mezzo, mica bruscolini) potreste tirare un altro respiro di sollievo.
Se non fosse per una sorpresina annidata in quella proposta. Siccome nessuno garantisce che il mercato spot sarà sempre così favorevole, ecco che gli utenti si devono caricare sulle spalle una bella assicurazione obbligatoria a favore dei signori del gas. Uno scherzetto che vale 800 milioni, e visto che ne beneficerebbero i titolari dei famosi contratti take or pay come appunto l’Eni, i piccoli sono imbufaliti. Ma anche fra i componenti dell’Autorità non sono mancate le discussioni. Per non parlare dei consumatori, che si vedrebbero ridurre il beneficio in bolletta dal teorico 10 per cento al 6, forse 7 per cento. La pratica si è quindi fermata: il taglio era previsto per aprile e certamente slitterà . Nel frattempo, le bollette continuano a correre.
Ciò nonostante chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno. Argomentando che sull’allineamento del prezzo italiano a quelli europei sono stati fatti sforzi sovrumani. Che le pressioni dell’Eni non hanno fatto breccia. E che se le tariffe del gas sono aumentate, proprio la piccola modifica al metodo di calcolo del prezzo ha fatto scendere dell’1,4 per cento le tariffe elettriche. Staremo a vedere se a questo zuccherino per le famiglie ne seguiranno altri più sostanziosi. La speranza è l’ultima a morire.
Intanto non si può non notare, come ha fatto la Staffetta quotidiana, che nell’ultimo anno i provvedimenti dell’Autorità a tutela dei consumatori sono stati appena l’11,3% del totale, contro il 17,7% del 2011 e il 25,8% del precedente collegio presieduto da Alessandro Ortis. Che in sette anni ha appioppato agli operatori multe per 200 milioni, a un ritmo di 28,5 milioni l’anno. Mentre dal 2011 l’Authority di Bortoni non è andata oltre i 7 milioni: 3 e mezzo l’anno. L’indipendenza non si può misurare soltanto con la violenza delle bacchettate, certo. Soprattutto in un mondo come quello dell’energia dove le multe fanno il solletico. Verissimo.
Ma ci sono fatti, piccoli fatti, che comunque pongono per il presidente di un organismo «indipendente» una questione di opportunità . Come quella storia sollevata da un’interrogazione parlamentare nella quale si chiedeva al ministro Corrado Passera conferma del fatto che «alcuni funzionari e dirigenti ora distaccati presso l’Autorità » da Gse e Acquirente Unico, fossero stati assunti dalle due società pubbliche «pochi giorni prima di tale distacco». Una decina di persone in tutto: fra queste anche l’assistente personale di Bortoni, che era già con lui al ministero dello Sviluppo, di cui era stato nominato direttore generale nel 2009 da Claudio Scajola, per essere poi da lì direttamente paracadutato nel 2011 al timone dell’Authority. Si chiama Cecilia Gatti, ed è incidentalmente la figlia di Giuseppe Gatti, amministratore delegato di Gdf Suez energia Italia: quarto produttore italiano di energia termoelettrica, terzo venditore di gas naturale nel nostro Paese dopo Eni ed Enel.
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