Marò cinque ore in Procura Così si difenderanno in India
ROMA — Cinque ore di interrogatorio, poi l’imbarco sul velivolo militare che li riporta a Kochi, in India. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone rispettano il patto siglato dal ministro degli Esteri Giulio Terzi e si consegnano nuovamente alle autorità indiane che li accusano dell’omicidio di due pescatori avvenuto il 15 febbraio scorso mentre erano a bordo della Enrica Lexie con compiti di protezione antipirateria. Ma prima si presentano davanti ai magistrati della Procura di Roma per chiarire la loro posizione e soprattutto per ribadire un punto fondamentale della propria difesa: la volontà di riconoscere esclusivamente la giurisdizione italiana, dunque di farsi processare dai giudici di Roma. Un atto formale che si trasforma anche in un’iniziativa politica del nostro governo, deciso a far valere questa linea di fronte alla Suprema Corte del Kerala che dovrà pronunciare il verdetto sulla competenza.
«Hanno una sola parola», aveva detto due giorni fa la signora Girone a chi le chiedeva se il marito avrebbe effettivamente lasciato l’Italia come concordato prima di ottenere una licenza di 15 giorni dietro pagamento di una cauzione. «Partiamo, mantenendo la nostra parola di italiani, fiduciosi nella giustizia», afferma Latorre prima di andar via. Lo sanno che il percorso è accidentato e soprattutto che la procedura rischia di essere ancora lunga. Ma sanno anche che violare l’accordo sarebbe stato impossibile.
In queste ultime due settimane la possibilità di far rimanere nel nostro Paese i due fucilieri della Marina Militare era stata esplorata analizzando diverse opzioni. Anche tenendo conto che la decisione di concedere loro un permesso per far rientro in Patria era stato accolto con molte proteste dalla popolazione locale. L’impegno del governo italiano per far ottenere il permesso di due settimane vincolava il titolare della Farnesina «nell’ambito delle sue prerogative» a far tornare gli imputati a Kochi, lì dove sono detenuti ormai da dieci mesi. Ma era, appunto, un impegno politico e dunque di fronte a un’eventuale azione della magistratura — ad esempio l’arresto proprio per il reato di omicidio — nessuno avrebbe potuto interferire. I pubblici ministeri non hanno però ritenuto ci fossero i presupposti per sollecitare la cattura dei due militari e dunque questa strada è rimasta senza esito.
L’altra possibilità valutata dagli esperti giuridici di Farnesina e ministero della Difesa prevedeva la presentazione di un ricorso per far riconoscere la competenza italiana a giudicare i due marò, ma alla fine si è ritenuto che la credibilità dell’Italia a livello internazionale sarebbe stata minata in maniera molto pesante, dunque si è deciso di organizzare il rientro. E di far così pesare sulla trattativa diplomatica proprio la volontà di collaborazione con le autorità indiane nella speranza che questo possa portare a un verdetto favorevole. «Abbiamo sparato in acqua — hanno ribadito ieri Girone e Latorre di fronte ai pubblici ministeri — e in ogni caso eravamo in acque internazionali». Un’affermazione che ribadisce la volontà di essere giudicati in Italia o comunque dalla magistratura di New Delhi e non nel Kerala come invece è avvenuto sino ad ora. Proprio su questa istanza, sostenuta dal governo italiano, si deve pronunciare la Suprema Corte. La sentenza, attesa da settembre, continua a essere rinviata. I due marò l’attenderanno da detenuti.
Fiorenza Sarzanini
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