LA RIVINCITA SUL NEOLIBERISMO

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Il disastro del neoliberismo consumato con la grande crisi del 2008 giunge al suo epilogo più naturale: un cambio di paradigma.
La vittoria del presidente piace ai mercati che si piegano al primato della politica, vedono negli Stati Uniti un leader con una strategia chiara, a sostegno della crescita. Obama infatti aggiunge che la sua manovra fiscale “protegge lavoratori e ceto medio da una stangata fiscale generalizzata che avrebbe avuto effetti recessivi”. La reazione positiva dei mercati nel mondo intero non è solo un riflesso da “scampato pericolo”. È il riconoscimento che una politica economica di sinistra può essere in questa fase la speranza per uscire dalla spirale debito-austerity-disoccupazione, che genera ulteriore impoverimento, e finisce per aggravare il peso degli stessi debiti pubblici. C’è un messaggio importante per l’Europa. Obama fa bene anche a noi. Nel senso più diretto e immediato, la ventata di fiducia che soffia dall’altra sponda dell’Atlantico spinge ancora più giù lo spread, riduce il costo del rifinanziamento dei debiti italiani e spagnoli. Inoltre la vittoria del presidente americano impone dei paragoni. La politica del rigore feroce applicata a Roma, Madrid, Atene e Lisbona, mantiene l’eurozona in uno stato di catalessi. Il continente dell’austerity è il buco nero della crescita mondiale. Altre terapie danno risultati diversi, e sarà  difficile continuare a ignorare questo raffronto.
Obama crede, e dimostra nei fatti, che equità  e crescita devono venire prima del rigore. Questo è il senso della manovra varata in extremis dal Congresso, evitando il “precipizio fiscale” del 2013. Se c’è una politica dei “due tempi”, l’ordine è quello indicato da Washington. Prima bisogna colpire le aree di opulenza e di privilegio, prima bisogna invertire la tendenza alla dilatazione delle diseguaglianze sociali. È questo il senso del voto nella notte di Capodanno al Senato, ieri alla Camera. I contribuenti americani che hanno la fortuna di guadagnare tra il mezzo milione e il milione annuo, dovranno fare uno sforzo aggiuntivo di 15.000 dollari solo per le tasse sul reddito. Quelli oltre il milione pagheranno 170.000 dollari di tasse in più. Si aggiunge il rincaro del prelievo sulle rendite finanziarie (dividendi e capital gain) e il rialzo al 40% della tassa di successione per le eredità  oltre i 5 milioni. È una manovra che rassicura i mercati perché è ispirata a una lucida strategia. La crescita riparte solo se c’è potere d’acquisto ai livelli più bassi, tra i lavoratori e nel ceto medio. Redistribuire, non significa solo riparare alle ingiustizie di un capitalismo oligarchico, ma anche diffondere potere d’acquisto e capacità  di consumo dove ce n’è bisogno. È così che l’economia reale può tornare a generare reddito e lavoro. È una lezione antica, fu uno dei capisaldi di quelle politiche keynesiane che contribuirono a guarire l’Occidente dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Il capitalismo salvato da se stesso, guarito dai propri impulsi autodistruttivi con l’intervento di una politica decisionista: funzionò con Franklin Roosevelt, ci riprova Obama.
Le conseguenze politiche sono altrettanto importanti. La destra americana è allo sbaraglio, lacerata, senza più capi, orfana di un sogno e di un’ideologia. Alla Camera, su 236 repubblicani 151 hanno votato no. È una spaccatura tremenda, a seguito di un trauma: da 22 anni nessun repubblicano era venuto meno al “giuramento anti-tasse” inventato dall’ayatollah del neoliberismo, Grover Norquist. Si esaurisce l’egemonia culturale che la destra aveva esercitato dai tempi di Ronald Reagan, influenzando anche le politiche di deregulation finanziaria di Bill Clinton. Obama torna a far sognare ai democratici un “riallineamento” storico, una ricomposizione profonda degli equilibri politici e dei valori dominanti, sul modello di quelle operate da Roosevelt e poi da John Kennedy. Per riuscirci questo presidente ha dovuto scontentare anche i suoi. A sinistra, c’è chi gli rimprovera di aver ceduto molto. Ma se Obama ha negoziato con flessibilità  non è solo per abilità  tattica, per affondare un cuneo in campo avversario, far esplodere le contraddizioni nel partito repubblicano. Questo presidente apprezza le virtù della moderazione, è istintivamente a disagio con gli eccessi “alla Hollande” (vedi l’aliquota del 75% sui ricchi francesi), evita criminalizzare la ricchezza quando è imprenditorialità  genuina, capacità  d’innovazione. Con lo stesso spirito affronterà  la prossima partita, il risanamento della spesa pubblica. È una prova che lo attende entro i due mesi, perché le tasse sui ricchi generano maggiori entrate per 600 miliardi ma il disavanzo decennale da contenere è dell’ordine dei 4.000 miliardi. Obama sa che dovrà  operare scelte dolorose sulla composizione della spesa, individuare le priorità  vere, gli investimenti da salvaguardare per il futuro degli americani. È questo il mestiere di una leadership politica, e la qualità  non gli fa difetto. Intanto ha seguito la regola “first things first”: cominciare dal verso giusto. Le grandi riforme del Welfare sono insostenibili se avvengono in un clima di impoverimento della maggioranza, di sfiducia nei confronti delle istituzioni, di rancore verso i privilegiati.


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