Inchiesta sul premier Pechino «caccia» il reporter americano

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Il New York Times pubblica una dettagliatissima indagine sugli affari della famiglia del premier cinese uscente Wen Jiabao: il giorno del primo articolo, in ottobre, il sito web diventa inaccessibile, proprio come in giugno era avvenuto con l’agenzia Bloomberg e una sua indagine sul patrimonio della famiglia dell’allora leader in pectore (e ora segretario del Partito) Xi Jinping.
Lunedì 31 dicembre lo stesso New York Times fa sapere che un suo corrispondente da Pechino ha dovuto lasciare precipitosamente la capitale in quanto il suo accredito e il suo visto giornalistico non sono stati rinnovati. Sempre il New York Times aggiunge che il nuovo responsabile dell’ufficio di corrispondenza dalla Repubblica Popolare, Philip P. Pan, non ha ancora ricevuto l’accredito richiesto in marzo. Se anche non fossero gli indizi di un’intimidazione nei confronti della libertà  di informare, quanto meno la concatenazione di circostanze risulta sospetta.
Dagli Stati Uniti, i vertici del quotidiano hanno tenuto un profilo relativamente discreto: «Speriamo che al nostro corrispondente sia presto rinnovato il visto». E lo stesso giornalista ha mostrato cautela, rifiutandosi di utilizzare il termine «espulsione»: «Il mio visto scadeva oggi e io non ho ricevuto quello nuovo…», ha dichiarato da Hong Kong.
Chris Buckley non è l’autore degli articoli sulla famiglia di Wen che avevano suscitato le reazioni indignate di Pechino. Da una dozzina d’anni in Cina, Buckley fino allo scorso ottobre lavorava per l’agenzia Reuters e questo rende il suo caso — per sua ammissione — «molto complicato». In sostanza, la pratica burocratica del rinnovo annuale del visto si è incrociata con la pratica burocratica del cambio di testata giornalistica. E qui nasce l’ambiguità  della sua vicenda. Potrebbe infatti trattarsi effettivamente di un pasticcio amministrativo, tanto più che il congresso del Partito comunista svoltosi in ritardo in novembre ha rallentato le attività  degli uffici competenti. Ma il pasticcio amministrativo potrebbe fornire al governo cinese la scusa per punire il New York Times, per così dire, senza lasciar tracce. Anche quando in maggio la corrispondente di Al Jazeera Melissa Chan aveva dovuto lasciare la Cina, non era stata tecnicamente espulsa: semplicemente, l’ennesimo visto temporaneo non le è stato rinnovato. Il fastidio delle autorità  per lo stile aggressivo della Chan, tuttavia, era ben noto.
Pure il caso di Pan, capo dell’ufficio di corrispondenza del New York Times, appare in bilico tra la persecuzione deliberata e l’inerzia burocratica. Pan però è una firma nota, già  in passato in Cina, autore di un libro importante, Out of Mao’s Shadow: una presenza di peso che coincide con l’avvio del decennio di Xi Jinping.
Sullo sfondo, il rapporto non sempre semplice fra le autorità  cinesi e i media occidentali, accusati spesso di accanirsi nel riportare gli aspetti negativi della Cina e di avere «agende nascoste». Anche il Foreign Correspondents’ Club of China (Fccc) viene considerato un’«associazione illegale» e i membri del suo board sono spesso sottoposti a pressioni (due anni fa, all’allora presidente il visto venne concesso l’ultimo giorno utile). Una Cina accanita nel costruirsi una rispettabilità  e una credibilità  sulla scena internazionale scopre che le regole del soft power non sono poi sempre così soft.
Marco Del Corona


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