Senza strada del ritorno
«Quando hanno sfondato la linea del fronte, lassù, abbiamo avuto solo 4, 5 ore per abbandonare il villaggio. Siamo partiti in fretta, con una borsa sulle spalle, per salvare la vita». Dusko guarda la collina dietro casa sua. Il 15 settembre del ’95, quando è caduta Vozuca, nella vallata adiacente, ha abbandonato tutte le sue cose ed è diventato un profugo. Oltre due milioni di persone, durante la guerra in Bosnia Erzegovina (BiH), tra il 1992 e il 1995, hanno subito il suo stesso destino.
Venti anni dopo l’inizio di quel conflitto, nessuno sa esattamente quanti di loro siano tornati a casa.
«Io sono ritornato l’8 marzo del 2001, con un primo gruppo di 20 famiglie. Fino a quel momento siamo rimasti nella periferia di Doboj, in Republika Srpska (una delle due entità in cui la BiH è divisa, ndr), a circa 50 km da qui. Tornare è stato difficile. Qui c’era la nostra fattoria, vivevamo di quello. Le stalle non c’erano più – racconta mostrando un vecchio cumulo di macerie – e la nostra riserva di bestiame era stata distrutta». La casa di Dusko, come la gran parte delle case del suo villaggio, Bocinje, nel comune di Maglaj, era stata occupata da una famiglia di mujaheddin, volontari stranieri che durante la guerra avevano combattuto in Bosnia centrale a fianco dei bosniaco musulmani.
«Qui a Bocinje, e nei villaggi circostanti, si erano insediate 145 famiglie di stranieri, più alcune centinaia di famiglie di mujaheddin bosniaci. Non volevano andarsene. Alla fine sono stati obbligati a farlo dalla comunità internazionale e dalle autorità locali. Sono rimasti solo quelli che erano riusciti ad acquistare legalmente un immobile prima del nostro ritorno. Con loro all’inizio abbiamo avuto qualche problema, non proprio scontri violenti, diciamo discussioni. Col tempo, però, si è tutto tranquillizzato. Anzi, negli ultimi tre anni sono iniziate anche delle forme di collaborazione tra noi, ritornanti serbi, e i mujaheddin. Direi che almeno la metà dei ritornanti si incontra con loro per comprare o vendere prodotti, scambiarsi cose».
Bocinje è un villaggio della Bosnia rurale che, prima della guerra, contava circa 4.000 abitanti. Se si considera la storia recente di questa comunità locale, e il fatto che quasi tutte le sue abitazioni erano state distrutte, parte nel ’95 e parte nel 2001, quando i mujaheddin se ne sono andati, si può ritenere che qui il processo di ritorno abbia avuto successo. Le case sono state ricostruite a gruppi di 10, 20, in base alle disponibilità delle organizzazioni che si occupavano della ricostruzione. Come altrove in Bosnia, i fondi non sono stati sufficienti per risanare tutti i danni. La maggior parte delle persone, però, ha avuto la possibilità di ritornare, le proprietà sono state restituite e, secondo i residenti, non ci sono più problemi di sicurezza.
Eppure, molti di quelli che sono ritornati, sono partiti di nuovo. Oggi, nella comunità locale di Bocinje, abitano poco più di 600 persone. Meno di un quarto degli abitanti originari.
Tutti insieme il 1 maggio ’92
Pochi chilometri a nord di Bocinje, seguendo il corso della Bosna, si entra in Republika Srpska. Uno dei primi villaggi che si incontrano lungo il fiume, dopo Doboj, è Kotorsko. Prima della guerra, Kotorsko era un villaggio completamente bosgnacco (bosniaco musulmano). Lo è anche oggi, nonostante si trovi nel territorio dell’entità a maggioranza serba. Venti anni fa però, all’inizio della guerra, i bosniaco musulmani di Kotorsko erano stati improvvisamente costretti a fuggire. «Il primo maggio del ’92 – ricorda Muhamed – eravamo tutti insieme a Doboj, con serbi e croati, a festeggiare la festa del lavoro. Poi, due giorni dopo, sono cominciati i bombardamenti sul nostro villaggio. Non riuscivamo neppure a crederci. Ci siamo difesi fino a quando abbiamo potuto ma alla fine, il 17 giugno, abbiamo dovuto abbandonare le nostre case. Siamo riusciti a evacuare l’intero villaggio, ma abbiamo perso tutto».
La rapidità con cui la pulizia etnica ha operato in Bosnia all’inizio della guerra, in particolare nel territorio dell’attuale Republika Srpska, è stata recentemente evocata nel corso del processo Karadzic da un’esperta di demografia, Ewa Tabeau, testimone della Procura. Secondo Tabeau, circa 300.000 bosniaco musulmani hanno dovuto lasciare le proprie case nei primissimi mesi del ’92 e in alcuni comuni, come ad esempio Prijedor, il loro numero è caduto del 97% tra il ’92 e il ’97, a fronte di un incremento della popolazione serba di oltre il 100%.
Anche il villaggio di Muhamed, Kotorsko, è stato occupato dai serbi, e i bosniaco musulmani sono potuti rientrare solo nel 2000. Una parte della cittadina era distrutta, una parte ancora occupata. «All’inizio non è stato facile, spiega Muhamed. La gente si era insediata nelle case, c’è stata resistenza. Poi, quando hanno visto che non c’era altra soluzione, pian piano i serbi se ne sono andati».
Le donazioni internazionali non sono state sufficienti a ricostruire le case di tutti. Alcuni, specie quelli che erano fuggiti all’estero, hanno dovuto fare da soli. Nonostante le difficoltà , tuttavia, anche la storia di Kotorsko sembra un successo. Tutte le proprietà sono state restituite e il ritorno è una realtà . Anche in questo villaggio però, che prima della guerra contava 3.600 abitanti, oggi ne vivono meno della metà . Più di 2.000 abitanti non ci sono più. Scappati dalle bombe nel 1992, hanno deciso di non tornare. Sono rimasti in Canada, Australia, Stati Uniti, o altrove in Europa. Se tornano a Kotorsko, è solo per le vacanze estive. Qui, del resto, non c’è lavoro. «Solo un po’ di commercio o edilizia, dice Muhamed. Le fabbriche non ci sono più. Ci sono solo i bar».
Trnovo Polje 1
Ai piedi della collina su cui sorge Kotorsko, su un’ansa del grande fiume che dà il nome al Paese, la Bosna, c’è uno spiazzo. Qui sorge un agglomerato di case costruite senza un ordine preciso. Non ci sono infrastrutture, al di fuori di una strada sterrata e di qualche palo elettrico. L’acqua non arriva dappertutto e la rete fognaria è inesistente. Gli abitanti chiamano questo posto «Trnovo Polje 1». Sono per lo più serbi che avevano occupato le case dei bosgnacchi di Kotorsko e che, dopo la restituzione delle case, non hanno voluto o potuto ritornare dove vivevano prima della guerra.
«Non tutti vogliono ritornare, specialmente quelli che hanno perso qualcuno in questa guerra sfortunata», spiega Simo, un uomo sui 50 anni. «Io sarei tornato, ma la mia casa è stata distrutta fino alle fondamenta. Non c’è più niente, non sembra neppure che lì ci fosse una casa. Ho chiesto aiuto per la ricostruzione, o una compensazione, ma non ho ottenuto nulla». Per alcuni anni, Simo ha occupato la proprietà di una donna bosniaco musulmana a Kotorsko. Quando lei è tornata dalla Germania, dove era fuggita durante la guerra, Simo ha attraversato la strada e ha costruito una baracca a Trnovo Polje 1. Col tempo, e non senza polemiche, quella baracca, insieme ad alcune altre decine, è diventata in muratura e, da soluzione provvisoria, è divenuta definitiva.
Di nuovo in Federazione, la parte del Paese a maggioranza croato-bosgnacca, incontriamo un altro gruppo di ritornanti a Zelece, nel comune di Zepce. Zivko, un serbo, si lamenta della totale mancanza di lavoro. Un vicino bosgnacco mi conferma che molti di loro, dopo essere ritornati, hanno venduto le case e sono partiti di nuovo.
Nel lungo dopoguerra bosniaco, i profughi hanno seguito strade diverse. Alcuni hanno deciso di non ritornare, restando all’estero o in altre zone del Paese. Altri, invece, hanno cercato di tornare a casa. Spesso, però, questi ultimi non hanno trovato quello che si aspettavano e sono partiti di nuovo, dando vita ad una seconda ondata migratoria dopo quella degli anni ’90. Gli effetti di questo secondo esodo non sono ancora stati valutati.
I dati del ministero
Mario Nenadic, funzionario del ministero per i Diritti Umani e i Rifugiati della Bosnia Erzegovina, attualmente assistente del Ministro, ha seguito la questione dei ritorni dal suo inizio. «Secondo i nostri dati – ha spiegato Nenadic ad Osservatorio – le persone che hanno dovuto lasciare il Paese durante la guerra, o che sono sfollate in altre zone della Bosnia Erzegovina, sono 2 milioni e duecentomila. L’ultimo censimento che è stato fatto in questo Paese, quello del 1991, aveva registrato 4 milioni e trecentomila abitanti. Oltre la metà della popolazione bosniaca, dunque, è stata costretta ad abbandonare le proprie case».
Circa un milione, secondo il ministero, sono quelli che sono fuggiti all’estero. Leggermente superiore il numero degli sfollati interni, rifugiatisi nelle zone del Paese dove la loro nazionalità era maggioranza. I dati del governo, alla primavera del 2012, indicano che, di queste due milioni e 200.000 persone, 1 milione e 70.000 sono ritornate alle proprie case. Le famiglie ancora in lista per ottenere la ricostruzione del proprio immobile, e poter fare ritorno, sono 47.000. Infine le persone che, in Bosnia Erzegovina, hanno ancora lo status di sfollati, sono 113.000.
Nel 2010 il ministero ha pubblicato un documento dal titolo «Strategia di revisione dell’attuazione dell’Annesso 7 di Dayton», la parte degli Accordi di Pace che stabilisce il diritto di tutti i profughi a fare ritorno alle proprie case. La strategia fissa il 2014 come data entro la quale garantire il diritto a tornare per quanti ancora desiderino farlo. Entro la stessa data dovranno essere risolti i problemi ancora pendenti di compensazione per coloro che hanno avuto le proprietà distrutte. Una serie di componenti aggiuntive, che includono salute, scuola, lavoro, sminamento e infrastrutture, completano il documento.
Nel descriverci la strategia, Nenadic sottolinea uno dei successi ottenuti dalla Bosnia Erzegovina nell’affrontare questo tsunami demografico: la risoluzione della questione dei diritti di proprietà , massicciamente violati nel corso degli anni ’90. «Nel corso di questi enormi spostamenti di popolazione – ci spiega – le proprietà occupate illegalmente sono state 225.000. Ad oggi siamo riusciti a restituirne il 99,9%, praticamente tutte». Il processo di restituzione delle proprietà , tuttavia, non è stato indolore. Spesso chi occupava una casa, e non voleva o poteva tornare nella propria, veniva trasferito in un alloggio temporaneo per lasciare spazio ai legittimi proprietari. Questi alloggi temporanei, tuttavia, con il tempo sono divenuti definitivi e oggi in Bosnia Erzegovina ci sono ancora più di 8.000 persone che vivono in circa 150 centri collettivi di piccole e medie dimensioni. Molti di loro sono vittime degli sgomberi fatti in conseguenza del meccanismo di restituzione delle proprietà .
Non tutti i Paesi della regione, inoltre, hanno affrontato allo stesso modo la questione dei diritti di proprietà . La Croazia, ad esempio, diversamente dalla Bosnia Erzegovina, ha negato ai profughi il diritto di riprendere possesso degli immobili quando si trattava di appartamenti in «proprietà sociale», una forma di proprietà vigente nella Jugoslavia socialista. In Bosnia, dunque, per lo più in RS, ci sono oggi ancora circa 7.000 rifugiati che provengono dalla Croazia, in particolare dalla Krajna, e che non possono riottenere la proprietà delle case in cui vivevano prima della guerra. Molti di questi sono in alloggi temporanei o centri collettivi (1).
Il nuovo esodo
A poche decine di metri dalla sede del governo bosniaco, dall’altro lato della Zmaja od Bosne, si trovano gli uffici dell’Unhacr, l’organizzazione alla quale gli accordi di Dayton hanno affidato il compito di sovrintendere al ritorno di profughi e sfollati. L’Unhcr stima di avere speso circa 800 milioni di dollari per adempiere al proprio compito in Bosnia. La cifra spesa per sostenere il processo di ritorno, tuttavia, è certamente molto più alta. Nessuno tuttavia dispone di un quadro complessivo della materia, dato che i finanziamenti sono avvenuti spesso in maniera bilaterale, tramite gli Stati e varie organizzazioni internazionali, governative o no, e senza coinvolgere il governo centrale. Scott Pohl, Senior Protection Officer per l’Unhcr in Bosnia Erzegovina, conferma sostanzialmente i dati relativi ai ritorni forniti dal ministero. Secondo l’Unhcr, tuttavia, il milione e più di ritornanti sarebbe suddiviso in circa 550.000 che sono tornati a vivere in luoghi dove la propria etnia è maggioranza, e 450.000 tornati dove oggi rappresentano la minoranza. «Noi pensiamo che i ritorni di maggioranze siano stati assolutamente sostenibili – afferma Pohl – e che quelle persone siano rimaste a vivere dove sono rientrate. I ritorni delle minoranze, invece, sono stati molto più difficili. È possibile che una parte di questi abbia trovato troppo difficile restare nei luoghi di origine, dopo avere riottenuto la proprietà , e abbia deciso di vendere. È anche possibile che abbiano venduto il proprio immobile immediatamente dopo averlo riottenuto, o che abbiano deciso di tornare solo durante i week end. Non ci sono stime su quanti di questi siano riusciti a rimanere, dopo il ritorno». Il prossimo censimento, programmato per l’aprile del 2013 (ma forse slitterà addirittura ad ottobre), al termine di lunghe discussioni tra le principali forze politiche del Paese, potrebbe dunque riservare delle sorprese. I ritornanti, secondo i dati ufficiali, sono poco più di un milione. Se tuttavia solo la metà di questi, 550.000, sono davvero ritornati, nel 2013 la Bosnia Erzegovina, che nel 1991 contava 4.300.000 abitanti, e che ha avuto 100.000 vittime durante la guerra, rischia di scoprire di essere un Paese spopolato. Inoltre, se gli unici effettivi ritorni sono quelli delle maggioranze, il censimento potrebbe fotografare una Bosnia ufficialmente divisa in tre zone sostanzialmente omogenee dal punto di vista etnico: una serba, una croata e una bosgnacca.
Fine del melting pot
«Il progetto di pulizia etnica, purtroppo, ha avuto successo», sostiene Srecko Latal, analista dell’International Crisis Group a Sarajevo. «Il grande melting pot che la Bosnia Erzegovina rappresentava prima della guerra, specie nelle aree urbane, non esiste più. La BiH oggi è una somma di comunità locali, cantoni, regioni prevalentemente monoetniche. Anche le grandi città , come Sarajevo o Banja Luka, sono abitate essenzialmente da un gruppo etnico. Il processo di restituzione delle proprietà è stato condotto in maniera efficace, ha avuto successo quasi per il 100% dei casi. Spesso però i proprietari, dopo aver riottenuto la casa, l’hanno venduta o scambiata per restare dove erano maggioranza». Secondo Latal, è stata la tempistica dei ritorni ad essere sbagliata. «I primi anni dopo la guerra sono stati il momento in cui la vera opportunità è stata persa. Dopo un primo periodo, in cui esisteva una fortissima volontà di ritorno da parte dei profughi, hanno cominciato ad essere sempre più importanti fattori diversi, quali la possibilità di trovare impiego. Quanti hanno trovato un lavoro all’estero, o in altre zone del Paese, hanno deciso di restare. Oggi, con un tasso di disoccupazione intorno al 40%, è molto difficile attendersi ancora ritorni, per lo meno in numeri significativi. Ci sono ormai circa un milione di persone che hanno trovato una nuova vita, famiglia, lavoro altrove, e che tornano in BiH solo per le vacanze estive o invernali. Le loro vite, i loro figli, purtroppo la Bosnia li ha persi».
«Il problema – spiega Armin Hoso, assistant field officer dell’Unhcr, organizzazione per la quale lavora dal 1993 – è che nel ’96, ’97 era difficile anche solo menzionare la parola ritorno. Era molto rischioso, specie in alcuni comuni, anche per il nostro staff. Bisognava fare un passo alla volta. A Dayton erano tutti d’accordo, tutte e tre le parti hanno firmato l’Annesso 7 dichiarando il diritto al ritorno. Sul campo, però, la situazione era diversa. Gli stessi che erano al potere nel periodo della pulizia etnica rivestivano la carica di sindaco, capo della polizia, funzionario comunale. Ci sono voluti 2 anni solo per cominciare a implementare le leggi di proprietà ».
La vittoria dei nazionalisti
Uno degli obiettivi principali dei nazionalisti, durante la guerra, era quello di spostare la gente da un lato all’altro del Paese con il terrorismo e la pulizia etnica. Dopo la guerra, l’obiettivo è diventato quello di impedire il ritorno delle minoranze, mantenendo sul proprio territorio le persone appartenenti alla maggioranza che vi erano sfollate. Nonostante Dayton, e gli sforzi profusi dalla comunità internazionale, in Bosnia i nazionalisti sembrano aver vinto sia la guerra che il dopoguerra. «È comprensibile che il ritorno sia avvenuto solo sulla carta», sottolinea Vera Jovanovic, direttrice dell’Helsinki Committee for Human Rights a Sarajevo. «Quando la gente ritornava, molto spesso doveva affrontare attacchi terroristici, bombe contro le proprie macchine o davanti alle case. Il progetto era spaventarli perché non tornassero o, se tornavano, farli ripartire. Il minimo che si può dire è che i ritornanti erano accolti in maniera molto poco amichevole. Bisogna considerare che cercavano di rientrare in luoghi da cui erano stati scacciati, e dove vivevano quelli che avevano commesso i crimini. La situazione era particolarmente difficile in RS, dove ancora oggi il ritorno è estremamente debole, ma non solo lì. Per questo la maggior parte delle persone, forse l’80%, ha chiesto di riottenere le proprietà solo per rivenderle».
Alcuni politici, secondo Vera Jovanovic, hanno svolto un ruolo determinante nel far fallire il processo di ritorno, negli anni immediatamente successivi alla firma degli Accordi di Pace. «Ricordo ad esempio, nel ’96, Momcilo Krajisnik (rappresentante serbo dell’Ufficio di Presidenza bosniaco) che organizzava il trasferimento dei serbi da Sarajevo, convincendoli a spostare anche i propri cimiteri, e spiegando loro che non era possibile continuare a vivere lì. Organizzava comizi a Ilidza, a Vogosca (quartieri di Sarajevo, ndr) facendo in modo che lasciassero la città . Contemporaneamente arrivavano i bosgnacchi della Bosnia dell’est, organizzati con gli autobus, e occupavano gli appartamenti vuoti. Io al tempo ero ombudsman, noi che lavoravamo per i diritti umani ci siamo resi conto che c’era evidentemente un accordo, che la pulizia etnica era concordata tra i cosiddetti ‘nemici mortali’, ognuno era interessato ad avere territori etnicamente puliti».
Colonie
Dopo la guerra, in tutta la Bosnia sono stati utilizzati simboli religiosi e nazionali, soprattutto croci e bandiere, chiese e moschee, per marcare i territori e segnare le appartenenze. In alcuni casi, però, sono stati anche avviati importanti programmi di opere pubbliche, in particolare edificazione di case, per permettere agli sfollati di rimanere dove erano maggioranza, creando delle sorte di colonie.
Lasciando Sarajevo da Grbavica, dopo aver attraversato il parco monumentale di Vraca, si entra nel comune di Istocno Novo Sarajevo, in Republika Srpska. Il vicepresidente del consiglio comunale, Vojislav Milinkovic, ci ricorda che, anche solo nell’ultimo periodo, sono state costruite 2.500 nuove abitazioni per i serbi di Sarajevo.
Nella capitale, secondo l’Unhcr, sono state restituite 33.000 proprietà , all’incirca il 90% di quelle che erano state occupate. Questo dato naturalmente non corrisponde a quello dei ritorni in città , per i quali nessuno dispone di dati precisi. Secondo diversi osservatori, la capitale della Bosnia Erzegovina sarebbe oggi una città quasi completamente bosgnacca. In un appartamento di Marijin Dvor, però, incontriamo una signora di nazionalità serba che contraddice il quadro generale, raccontando la propria storia.
La forza di lottare
«Sono nata a Sarajevo – dice Varja – ho sempre vissuto qui, in centro. Dopo che hanno bombardato la nostra casa, il 26 maggio del ’92, mio figlio è partito e, qualche mese dopo, anch’io l’ho raggiunto all’estero. Sono tornata nel gennaio del ’96, appena è finita la guerra. Ho bussato alla porta del mio appartamento ma non mi hanno fatta entrare, era occupato. Dato che nessuno mi ascoltava, e le autorità non mi sostenevano, ho deciso di citare tutti in tribunale: il Comune, la Federazione, lo Stato. Ci ho messo tre anni, ma alla fine ci sono riuscita. Io non ho mai avuto dubbi, la mia città è la mia città , e non volevo seguire il destino dei serbi che se ne andavano, abbandonando le case». Interrogata sul presente e il futuro della città , Varja approfondisce il suo punto di vista: «Io mi sono sempre sentita bene qui, non mi manca niente. Molti che tornano per brevi periodi si lamentano, hanno un atteggiamento diverso, dicono che Sarajevo non è più quella che era. Io dico che i responsabili sono proprio loro. Se ne sono andati, sono tornati solo per vendere le loro case e sono partiti di nuovo. È stata una loro scelta, io non la condivido. Bisogna appartenere ad un luogo, bisogna lottare, non è così?».
Venti anni dopo l’inizio della guerra, la Bosnia Erzegovina è uno strano Paese. Da un lato gli Accordi di Pace di Dayton hanno certificato la divisione etnica in ogni aspetto della vita politica e sociale. Dall’altro, hanno cercato di ricostruire il quadro demografico preesistente alla guerra, e di ricreare quello che la Bosnia ha sempre rappresentato nella storia europea, l’unione nella diversità . Oggi, però, il fatto di appartenere ad una maggioranza o ad una minoranza, nelle diverse parti del Paese, non è indifferente, e la sintesi tra i contraddittori aspetti della pace non è ancora stata possibile. Per questo, ci sarebbe bisogno di una nuova classe politica, in grado di riformare la Costituzione, e di una nuova società . Fantascienza, nell’attuale scenario politico bosniaco ed europeo.
Per il momento, resta l’esempio di chi ha voluto fare ritorno. Si tratta di persone che hanno dimostrato uno straordinario coraggio, oltre ad un fortissimo attaccamento alla propria terra. Persone come Varja, Muhamed, Dusko. L’anno prossimo, dopo il primo censimento della popolazione dalla fine della guerra, sapremo quanti hanno fatto la loro stessa scelta. Il futuro aspetto della Bosnia Erzegovina dipende in gran parte da loro.
* Osservatorio Balcani e Caucaso
(1) Una conferenza di donatori, svoltasi a Sarajevo alla fine di aprile, ha tuttavia innescato un processo regionale virtuoso che coinvolge, oltre alla Bosnia Erzegovina, anche Croazia, Serbia e Montenegro. I 4 Paesi hanno firmato un accordo ministeriale che dovrebbe permettere di assistere circa 70.000 persone grazie ad un finanziamento di 265 milioni di euro, in gran parte donati dall’Ue, per tutelare almeno i casi più vulnerabili a partire da questo autunno.
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