Roma, il palazzo dei disperati che adesso imbarazza l’Italia

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ROMA — Da cinque anni Tesfay Teklay vive in una città  che non compare su nessuna mappa. Invisibile, «proprio come mi sento io» dice. Tesfay è uno degli 800 migranti del Corno D’Africa che da anni abita in un edificio occupato nella periferia a sud-est di Roma che hanno chiamato “Salam Palace”: il palazzo della pace. Dentro ci vivono uomini e donne fuggiti da guerre e persecuzioni in Eritrea, Etiopia, Sudan, Somalia, stranieri che hanno ottenuto lo status di rifugiati. Ma la loro odissea continua ogni giorno a Roma, in questa vecchia sede dell’università  di Tor Vergata che ora imbarazza l’Italia dopo che l’International Herald Tribune ha dedicato ieri al caso la prima pagina, denunciando «il paradosso italiano dei rifugiati, prima accolti e poi dimenticati». Il quotidiano statunitense ricorda il giudizio che il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, aveva espresso a luglio, dopo aver visitato il Salam Palace, documentando «le scioccanti condizioni in cui vivono uomini, donne e bambini». Dopo la denuncia dell’Herald Tribune, il Viminale ha annunciato che «a breve sarà  avviato un tavolo per definire un progetto di inclusione sociale». Un nuovo capitolo nella lunga storia dell’edificio di proprietà  dell’Enasarco, occupato da anni dai rifugiati. Nel 2006, il Campidoglio guidato da Veltroni cominciò a pagare un canone all’Enasarco per l’affitto e le bollette.
L’anno successivo le istituzioni decisero di trasferire i rifugiati in strutture più idonee. L’accordo con i migranti, però, non fu mai raggiunto. Così molti rifugiati
scelsero di rimanere nell’edificio occupato, dove oggi vivono, ammassate in mini-appartamenti fatiscenti ricavati dalle aule, centinaia di famiglie. Come
quella di Tesfay, che fra queste mura ha conosciuto la moglie, che un anno e mezzo fa ha dato alla luce il loro primo figlio. «Dal 2007 le istituzioni si sono dimenticate di loro» afferma Donatella D’Angelo dell’associazione Cittadini del mondo: l’unica presenza italiana nello stabile di via Cavaglieri. La D’Angelo con i suoi volontari ogni giovedì sera riceve i pazienti in un ambulatorio medico allestito nel palazzo. «L’incidenza di malattie è altissima e in queste condizioni il contagio è inevitabile» spiega il medico. Al secondo piano per 45 persone c’è un unico bagno. E siccome gli inquilini aumentano, gli ultimi arrivati dormono sul terrazzo, con un materasso per terra. Nonostante le precarie condizioni igienico- sanitarie, i rifugiati hanno creato nel palazzo una comunità , guidata da un consiglio di 8 rappresentanti, due per ogni etnia. «Non abbiamo nulla, ma proviamo a vivere con dignità » racconta Kedane, uno dei membri del consiglio, mostrando la piccola lavanderia e il barbiere al primo piano. C’è anche un minimarket: «Alcuni supermercati ci regalano la merce in scadenza, noi la rivendiamo qui e usiamo i soldi per i lavori di manutenzione necessari, ma non bastano mai. Ci manca tutto. L’Italia ci ha accolto come rifugiati, ma poi ci ha abbandonato» dice Tesfay.
Una questione su cui si è espresso anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: «L’Italia soddisfa quasi il 50 per cento delle richieste di asilo politico. Il problema viene dopo» riconosce Laurence Jolles, delegato Unhcr per il Sud Europa. «Il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) mette a disposizione circa 3mila posti, ma nel solo 2011 le domande d’asilo presentate sono state 34 mila e il 35 per cento di queste sono state accettate. Il governo punta il prossimo anno ad arrivare a 5mila posti, ma si tratterà  comunque di una goccia in un mare» conclude Jolles.


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