Manicomi impossibili sulla via del tramonto
In allestimento reparti ad hoc in alcune carceri per trasferirvi gli internati Il sequestro dell’intero Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (ex manicomio criminale) disposto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, ha rimesso il tema della chiusura degli Opg al centro dell’attenzione nazionale. Come è noto, mercoledì i carabinieri dei Nas, su disposizione della Commissione, che possiede poteri analoghi al potere giudiziario, hanno posto sotto sequestro l’Opg, a causa delle sue pessime condizioni igienico-strutturali. L’ordinanza di sequestro assegna un termine di 30 giorni per il trasferimento dei circa 200 internati presenti. Ma che senso ha sequestrare una struttura che, per legge, dovrebbe chiudere entro marzo 2013? Per comprenderlo è bene fare un passo indietro, in una storia che diviene sempre più complicata. Sopravvissuti alla chiusura dei manicomi civili, i vecchi manicomi criminali hanno assunto il nome di Opg, ma non hanno mutato sostanza. Sono strutture detentive nelle quali finiscono sofferenti psichici autori di reato che sono condannati ad una misura di sicurezza detentiva. Una misura di sicurezza che, se sussistono condizioni di pericolosità sociale o un’assenza di alternative, può essere prorogata un numero infinite di volte. Oggetto di numerose inchieste nel anni ’70 per violenze e maltrattamenti, ma anche di denunce, in anni recenti, da parte di singoli deputati e dell’associazione Antigone, gli Opg sono tornati al centro dell’attenzione pubblica nel 2010. Fondamentale è stato il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), organismo di tutela dei diritti del Consiglio d’Europa, presieduto allora da Mauro Palma, sulla visita effettuata nell’Opg di Aversa. Il quadro disegnato dal Cpt, letti di contenzione, isolamento prolungato, condizioni inumane e degradanti, povertà estrema, abbandono psichiatrico, assenza di terapie, ha spinto la Commissione presieduta da Marino a recarsi in visita ispettiva non solo ad Aversa, ma anche negli altri cinque Opg nelle quali erano presenti circa 1.300 persone. È così venuto alla luce un diffuso sistema di abbandono, deprivazioni e inumanità esteso in particolare alle strutture di Aversa, Barcellona e Montelupo Fiorentino. Ed è emerso anche un altro elemento inquietante. Centinaia di persone internate vedono prorogata la propria misura di sicurezza perché non ricevevano assistenza dai propri servizi di salute mentale o perché non hanno famiglie in grado di farsi carico di loro. E così molti sofferenti psichici, entrati in Opg per aver commesso o solo tentato piccoli furti, si sono trovati a scontare decine di anni di detenzione in assoluta incertezza sulla fine della pena e in condizioni inumane. La Commissione parlamentare è riuscita, con una tenacia che le va riconosciuta, a non far mai cadere l’attenzione sul tema. Ha sequestrato reparti, effettuato sopralluoghi e audizioni, e girato un video in cui le terribili condizioni detentive emergevano in tutta la loro brutalità . Tanto che persino il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano non ha potuto che definire gli Opg come «un orrore medioevale». Si è così giunti all’approvazione, in modo unanime, della legge n. 9/2012 che dispone il termine della chiusura al marzo 2013, ma non incide sul meccanismo delle misure di sicurezza e sulla loro prorogabilità prevista dal codice penale. La norma ha stabilito che gli Opg devono essere sostituiti da mini-strutture sanitarie regionali (20-30 posti) e ha stanziato anche risorse significative per le Regioni, per la gestione (38 milioni nel 2012, 55 milioni nel 2013) e per la costruzione (173,8 milioni di euro per il 2012 e il 2013). Dove sorgono i problemi allora? Il primo problema nasce dal fatto che questi soldi sono stati ripartiti solo a dicembre e che, pertanto, tecnicamente, non saranno mai disponibili per le Regioni prima di qualche mese. Il ritardo delle Regioni nella definizione e individuazione di queste nuove strutture, le cui caratteristiche sono state definite solo nel mese di novembre, è uno degli elementi che spinge in molti a ritenere che sia necessaria una proroga. Proroga della quale Ignazio Marino non vuole sentir parlare. Ha piuttosto proposto al presidente uscente Mario Monti, a nome della Commissione di inchiesta, di nominare «una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal Parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione». Ma al momento nessuna risposta. Ecco il perché del sequestro, segnale forte e deciso da parte della Commissione. Ma sono in molti a segnalare problemi ancora più gravi dei ritardi. Il Comitato stopOpg, (Antigone, Forum salute mentale, Psichiatria democratica, Cgil) segnala il rischio forte che queste strutture regionali possa trasformarsi in mini-Opg. Secondo i portavoce del Comitato, «le persone internate negli Opg non sono dei “pacchi” da trasferire da un “contenitore” ad un altro. Sono persone che hanno diritto di essere riportate nella regione di appartenenza per ricevere un’assistenza individuale: con progetti terapeutico riabilitativi, differenziati a seconda del bisogno assistenziale, a cura del Dipartimento di salute mentale di residenza». E del resto, considerato che queste strutture sanitarie saranno affidate a soggetti privati e senza che sia stato modificato il sistema delle misure di sicurezza, il rischio di nuove forme di internamento è davvero molto alto. Un altro rischio è evidenziato dalla deputata Radicale Rita Bernardini che, polemicamente, ha commentato «mi auguro che il senatore Ignazio Marino si sia posto il problema dei 210 pazienti che dovranno essere “trasferiti” entro 30 giorni. Dove verranno trasferiti? In altri Opg a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia, lontani dai loro familiari? Nei repartini che si stanno predisponendo inopinatamente negli istituti penitenziari per incarcerarli?». Rischio più che concreto se consideriamo che, solo per fare un elenco parziale e certo incompleto a campione in tre regioni (Abruzzo, Campania, Lazio), l’Amministrazione penitenziaria sta predisponendo reparti detentivi per sofferenti psichici nelle carceri di Rebibbia, Regina Coeli, Civitavecchia, Velletri, Vasto, Teramo, L’Aquila, Sulmona, Lanciano, Pescara, Santa Maria Capua Vetere, Pozzuoli e Salerno. C’è dunque la concreta possibilità che una parte degli internati che non verrà dimessa e che non andrà a finire nelle nuove strutture sanitarie, finirà dispersa nel circuito penitenziario dove si stima siano già presenti circa 22 mila detenuti con un disagio psichico (su 66.500). Sarebbe davvero una sconfitta per tutti quelli che desiderano il reale superamento dei dispositivi di internamento manicomiali. La mancata modifica del codice penale rende certo più fragili le speranze di un cambiamento che rimane necessario. «Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità : la punizione di coloro per la cui cura e tutela medicina e giustizia dovrebbero esistere». Questo scriveva Franco Basaglia, nel 1973 a proposito di quelli che oggi si chiamano Ospedali psichiatrici giudiziari. Allora sembrava impossibile che si potessero davvero chiudere i manicomi. Oggi appare incredibile che siano ancora aperti.
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SCHEDA · Nei sei ex manicomi giudiziari ci sono 1100 “ospiti”
In dieci anni 44 reclusi morti
Gli Ospedali psichiatrici giudiziari (noti in passato prima come manicomi criminali, poi come manicomi giudiziari) sono in tutto sei (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia) ed ospitano, complessivamente, ad oggi, 1.100 (79 donne) internati. Sono strutture detentive del ministero della Giustizia (ad eccezione di Castiglione delle Stiviere) con una doppia direzione. Una che dipende dall’amministrazione penitenziaria ed è responsabile della sicurezza, una che dipende dalle Asl ed è responsabile della parte sanitaria. La Regione Sicilia, in quanto regione a statuto speciale, non ha ancora recepito la riforma della sanità penitenziaria. Quella di Barcellona Pozzo di Gotto è quindi l’unica struttura completamente dipendente dal ministero della Giustizia. Dopo l’intervento della Commissione parlamentare di inchiesta sul servizio sanitario nazionale sono state attivati interventi per la dimissione di quegli internati per i quali non sussistono elementi di pericolosità sociale e che possono essere dimessi e presi in carico dal sistema sanitario nazionale. E’ stata chiusa la sezione “Staccata” dell’Opg di Aversa (tristemente nota per i letti di contenzione). Secondo i dati di Ristretti Orizzonti, negli ultimi dieci anni, sono 44 gli internati deceduti, per suicidi o malattie, durante la detenzione. La procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto una inchiesta sulla serie di morti e suicidi avvenute ad Aversa.
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LA STORIA Antonio Provenzano una vita di lotta per venirne fuori
D. S. D. A.
Una volta entrati nel girone infernale degli Opg e delle misure di sicurezza è davvero difficile venirne fuori, anche se fuori c’è una famiglia che ti aspetta ed è pronta a lottare per il tuo ritorno. Lo testimonia la storia di Antonio Provenzano, romano, e di sua sorella Elisabetta, che ha fondato il comitato «Elj per tutti i Tonino». Dopo un grave incidente automobilistico, che lo costrinse al coma, Antonio comincia a soffrire di una forma di psicosi schizofrenica di tipo paranoide lieve ma preoccupante. Comincia così un calvario fatto di ricoveri e trattamenti sanitari obbligatori. Nel dicembre del 2005, un altro episodio ne aggrava le condizioni. Come racconta la stessa Elisabetta, «un gruppo di violenti del quartiere lo sequestrò e lo sottopose a sevizie e umiliazioni, lasciandolo sanguinante e stravolto in un canale al lato della strada dove una ragazza che assistette alla scena si fece premura di chiamare i carabinieri». Antonio, dopo l’aggressione, attraversa una nuova fase di forte stress psicologico. Ha paura di essere aggredito di nuovo e comincia a girare con un piccolo bastone per proteggersi. Viene denunciato, riconosciuto non imputabile, e condannato ad una misura di sicurezza di sei mesi. Finisce prima nell’Opg di Montelupo Fiorentino, poi in quello di Aversa. La famiglia vuole che Antonio torni e chiede alla Asl competente di predisporre un progetto terapeutico personalizzato. Solo così il magistrato di sorveglianza può trasformare la misura detentiva in misura alternativa presso una comunità . La Asl di Ostia tentenna perché si tratta di investire risorse che preferirebbe non spendere. E senza alternative la misura viene prorogata. La situazione rimane in una fase di stallo fino a quando Elisabetta Provenzano non decide, nel 2011, armata di una tenda, di accamparsi sul tetto della Asl fino a quando non saranno pronti documenti necessari per dare il via al percorso terapeutico per Antonio. La protesta ottiene eco sulla stampa e in televisione, del caso di interessa anche la Commissione presieduta dal senatore Ignazio Marino. La Asl predispone, finalmente, il progetto e stanzia le risorse necessarie a pagare le spese. Ma non è finita. Bisogna attendere l’udienza per il riesame della misura di sicurezza di fronte al magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Elisabetta va su è giù tra Roma e Aversa, mentre il Comitato organizza eventi di sensibilizzazione sul tema della salute mentale. La storia di Antonio raccoglie molta solidarietà , Mario Barone per l’associazione Antigone mette a disposizione l’assistenza legale. Antonio Provenzano ottiene, nel settembre del 2011 la «licenza finale di esperimento» in ricovero presso una Comunità . Al termine dei sei mesi potrebbe ottenere la liberazione definitiva. Ma c’è un imprevisto, Antonio ha un incidente e si frattura, in malo modo, le gambe. Si interrompe il percorso di reinserimento sociale e, di fatto, è costretto a scegliere tra una struttura dove possa avere assistenza psichiatrica e una dove possa disporre di assistenza per la riabilitazione motoria. Trascorrono altri mesi necessari per definire un nuovo progetto terapeutico che, finalmente, prevede che Antonio possa essere seguito dai servizi nel proprio domicilio. «È questa la risposta indispensabile – spiega Elisabetta – un progetto personalizzato calibrato sulle esigenze reali di Antonio e dei suoi familiari». Nessuna comunità o struttura, quindi, ma uno stretto raccordo con la famiglia. Ora manca un ultimo tassello, il via libero definitivo del magistrato di sorveglianza, decisivo per porre fine alla misura di sicurezza. Sono trascorsi tre anni, ma a breve questo calvario avrà fine. Ma quanto sarebbe durato se, come in centinaia di altri casi, non vi fosse stato fuori nessuno a lottare per la sua libertà ?
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