Svanhild, la bambina che volò con l’aquila

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Non è successo, e non potrebbe succedere, ha assicurato il centro di Montreal che l’ha diffuso. Non è successo, può succedere. Quando io l’ho conosciuta, nel 1987, era una signora di sessantadue anni, già  nonna, minuta, con gli occhi azzurri e un sorriso dolce. Si chiamava — perché è morta nel novembre del 2011 — Svanhild Hansen Moe, Hartvigsen da sposata. Fu rapita dall’aquila il 5 giugno del 1932, a Leka, uno dei cinquemila fra isolotti e scogli dell’arcipelago norvegese di Vikna. Aveva allora tre anni e otto mesi, pesava fra i dieci e i dodici chili. Sostiene la maggioranza degli ornitologi che un’aquila non possa sollevare e trasportare in volo un cucciolo umano di quell’età : secondo l’attuale loro presidente norvegese, può sollevare al massimo 3,2 chili. Svanhild era molto offesa dagli ornitologi diffidenti, e aveva deciso di non volerne più parlare. Mi incontrò perché la mia compagna era di famiglia a Roervik, e mi autorizzò a ripubblicare la sua storia. Ci accolse nel tinello curatissimo della sua casa di legno, pieno di reliquie. Vedo che in anni più recenti aveva ri-raccontato la propria storia, ed era tornata per la prima volta sul monte del nido dell’aquila. Ne hanno fatto adesso una meta per turisti e pellegrini.
L’aquila di mare dalla coda bianca è la più grande, l’apertura delle ali supera i due metri e mezzo, fa il nido in cima ai pini, o in nicchie sulle pareti di roccia. Svanhild abitava in una fattoria di Hortavaer, e quel giorno parenti e amici festeggiavano il battesimo del suo fratellino. Dopo il lungo pranzo i grandi andarono a dormire, lei restò a giocare. Non la ritrovarono, cercarono nei laghetti, in mare, invano. In un’isoletta non ci sono molti posti per perdersi. La “vecchiaccia” del luogo — le chiamano così, ci sono in ogni paese, di solito sono vedove e scorbutiche — inveiva contro l’aquila: “Sei tu, maledetta, che hai rubato la piccola!” Nessuno le dava retta. Finché trovarono un fazzolettino della bambina. Allora i giovani decisero di scalare la montagna di Leka, dove l’aquila aveva il nido. La cercarono, in decine, fino a notte fonda: le notti di giugno sono bianche. Tre di loro non si arresero, ed ecco che uno avvistò un involtino in una cavità  della roccia, a 180 metri. Era Svanhild addormentata con la faccia voltata verso terra, e questo lo spaventò, perché si dice che l’aquila attacchi prima gli occhi. Si fece coraggio e la toccò col dito, piano, e lei si svegliò.
Svanhild mi mostrò il vestitino da festa di cotone che indossava quel giorno, strappato e conservato come una reliquia in una scatola. Mi raccontò che dopo per un po’ gli altri bambini la chiamavano l’aquilotto, con una punta di invidia e di malevolenza. «Anch’io mi sentivo un po’ diversa. Il mio salvatore si chiamava Leif Andersen, abitammo a lungo su due isolotti distanti sì e no due miglia, ogni volta che ci incontravamo era un avvenimento. Dopo quel giorno molti furono convinti di vedere l’aquila volare con le zampe ciondoloni, per lo sforzo che aveva fatto. Io mi ricordo che cosa accadde lassù. L’aquila mi stava di fronte, e le tiravo le pietre, perché la scambiavo per il mugnaiaccio – è il più grande dei gabbiani – che cacciavo a sassate quando si avvicinava ai piccoli degli edredoni. Io non ho mai volato in aereo. Quella dell’aquila è stata l’unica volta».
Gli ornitologi disputarono furiosamente, e non hanno mai smesso. Sono usciti libri e articoli accaniti: li ho appena guardati, trovando parecchie inesattezze. Fra gli increduli, c’è anche la comprensibile preoccupazione che le aquile vengano malviste e temute per i bambini: un po’ come le zingare. Si è discusso perfino se il forte vento di quel giorno potesse aver sospinto il volo dell’aquila. Svanhild non ne voleva più sapere. Ma a Roervik lo sapevano tutti: quella signora dolce e minuta aveva volato con l’aquila sul monte di Leka, e poi era tornata giù.


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