Un anno Vissuto pericolosamente lo spread termometro dell’Italia

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L’anno di Monti è stato lungo. In termini psicologici si può dire che di tempo sembra ne sia passato almeno il doppio. Questa sensazione si spiega con il profondo carattere di cesura che ha avuto la sua azione tanto che nel vissuto degli italiani rimarranno «un prima» e «un dopo». Il motivo non sta solo nella mole di provvedimenti, alcuni dei quali veramente ambiziosi, che l’esecutivo ha condotto in porto o comunque ha messo in cottura, la cesura si spiega anche con una coincidenza: i tempi della permanenza di Monti al governo sono scorsi di pari passo con la presa di coscienza della gravità  della crisi da parte di tutti noi. Renato Mannheimer racconta sempre che fino all’anno passato i «sondaggiati» finivano per sostenere che «il Paese va male ma io me la cavo». È da un po’ invece che quest’asimmetria opportunistica non si ripresenta più e la sua sparizione coincide grosso modo con la presenza sul palco di Palazzo Chigi del governo tecnico.
L’anno del Professore ci pare più lungo anche per i passaggi complicati che ha determinato. Innanzitutto la formazione di una «strana maggioranza» in Parlamento composta da partiti che si erano delegittimati a vicenda e combattuti furiosamente per anni. Ma non va dimenticata la messa in mora della concertazione, quella che il governo Ciampi negli anni 90 considerava una best practice italiana e che invece Monti ha mostrato di catalogare solo come un vincolo. È stato anche un anno in cui è parso sempre più chiaro come l’interdipendenza europea via via si estendesse dagli storici parametri di Maastricht fino al giudizio sui singoli provvedimenti votati dal Parlamento e in ultimo all’evoluzione degli stessi scenari politici.
L’economia ha occupato la scena e non poteva essere altrimenti. Il blitz iniziale che ha portato ad approvare una riforma delle pensioni più rigorosa di quella di molti altri Paesi europei è rimasto forse il capolavoro del governo, pagato con sole tre ore di sciopero da parte dei sindacati. Toccherà  agli storici dire se si sia verificato un «momento Thatcher» per velocità  dell’azione e profondità  delle conseguenze, di sicuro di momenti così non ce ne sono stati molti altri. Sia l’intervento sulle liberalizzazioni sia quello sul mercato del lavoro hanno avuto contorni più pasticciati, sono stati a loro modo una tela di Penelope scucita e ricucita più volte con esiti finali marginali o addirittura contraddittori. Dopo il lungo anno di Monti la pressione fiscale è aumentata (nel 2011 era al 42,5% dato Istat e le previsioni del Consiglio dei commercialisti parlano di 45,5% a fine 2012) e l’Imu si è rivelata in corso d’opera una patrimoniale di massa che ha colpito quelle porzioni di ceto medio abituate a risparmiare e a investire nel mattone. Come accadde per l’eurotassa gli italiani l’Imu comunque l’hanno pagata, oltre le previsioni.
Durante il governo dei tecnici è cambiato il modo di percepire lo spread. Il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi è diventato un parametro dello stato di salute del Paese alla portata di tutti. È entrato prepotentemente nella vita degli italiani come il caffè mattutino o la consultazione del meteo. Per l’inquilino di Palazzo Chigi lo spread è ormai una sorta di indice di stima internazionale e in materia non si può dire che Monti non abbia lavorato bene (l’ha trovato a 575, lo lascia a 310, dopo aver toccato anche i 278 punti il 19 marzo), ha capito che occorreva influenzare l’opinione degli uomini dei mercati e ha saputo spendere con profitto il suo prestigio in tutte le occasioni che ha potuto. Anche sull’avanzo primario il Professore chiude la sua esperienza a Palazzo Chigi con un’ottima performance (2,9% sul Pil mentre un anno fa era 1%) per effetto anche di una contrastatissima spending review lanciata ai tempi di Tommaso Padoa-Schioppa, derubricata da Giulio Tremonti e tornata in auge con Monti grazie all’aiuto di Enrico Bondi.
Dove il bilancio dei tecnici è sicuramente carente è in materia di crescita e occupazione. La caduta del Pil non si è arrestata — il terzo trimestre 2012 ha fatto segnare -2,4 rispetto al terzo trimestre 2011 — e con essa la discesa dell’occupazione. Gli ultimi dati riferiti a ottobre 2012 dicono che l’indice di disoccupazione è all’11,1%, in aumento del 2,3% rispetto a un anno prima. Stiamo macinando record di non lavoro giovanile e l’Istat non smette di avvisarci che non ha ancora toccato il fondo. Resta ovviamente aperta la domanda se il governo potesse fare di più, pur con i vincoli che aveva e con l’impossibilità  di finanziare manovre pro cicliche anche a breve.
I posti di lavoro mancanti all’appello hanno pesato sicuramente nel rapporto con il Paese reale. L’approccio di Monti è stato inizialmente pedagogico e in un caso ha persino chiesto agli italiani di cambiare «stili di vita». Voleva dire giustamente che un vero risanamento non è possibile senza una forte discontinuità  culturale ma il messaggio non ha colpito nel segno, è parso giacobino. Qualche gaffe di comunicazione di alcuni ministri ha reso ancor più arduo creare un feeling popolare e sono stati rari i momenti in cui in pubblico è apparsa una piena consonanza tra il premier e i cittadini. È capitato in qualche assemblea di imprenditori, al taglio del nastro di un nuovo stabilimento Barilla e 48 ore fa all’assemblea di Pomigliano con Sergio Marchionne. Al contrario Monti è parso sempre a suo agio nei vertici internazionali mettendo a frutto l’esperienza da eurocommissario e l’organizzazione dei tradizionali seminari d’inizio settembre a Cernobbio. I maligni potranno controbattere che tranne la Merkel e Obama non ci sono in questo momento grandi leadership ma il Professore ha saputo ritagliarsi uno spazio di cui raramente i capi di governo italiani hanno goduto nell’arena internazionale.
È stato un anno lungo anche nel rapporto tra i tecnici e la politica. Per i grandi partiti italiani il governo Monti poteva rappresentare un’occasione forse irripetibile. La possibilità  di sospendere la responsabilità  diretta nell’adozione di provvedimenti impopolari, la chance di utilizzare l’intermezzo per recuperare ascolto e sintonia con la società , l’eventualità  di aprire una selezione interna per rinnovare facce/metodi e soprattutto la disponibilità  di tempo per riprendere il filo di un’elaborazione programmatica dotata di respiro e di visione. In parte con l’esperimento delle «primarie conflittuali» il Pd quest’occasione l’ha colta, ha sfruttato meno la chance di innovare la proposta di merito. Il Pdl, dal canto suo, ha sprecato invece entrambe le carte.


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