Amnesty Migranti nei campi, il Paese degli abusi

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Soli davanti alla giustizia Un mare di giornate lavorative nei campi e tanti cittadini immigrati quanti ne basterebbero per formare la popolazione di interi paesi. È questo il quadro elaborato da Amnesty International sullo sfruttamento dei migranti che lavorano in Italia come braccianti agricoli. Vengono perlopiù da Asia, Nord Africa e Africa sub-sahariana e sono sottoposti a varie forme di sfruttamento, riduzioni arbitrarie dei compensi, ritardato o mancato pagamento, lunghi orari di lavoro.
Le conclusioni cui arriva lo studio derivano da due missioni di ricerca, condotte nel febbraio 2012 a Milano, Roma e Rosarno, e, tra giugno e luglio 2012, di nuovo a Roma e nell’area di Latina e di Caserta. Ricognizioni sul territorio nel corso delle quali i delegati di Amnesty hanno realizzato interviste e incontri con gli stessi lavoratori, con alcune organizzazioni non governative e altre organizzazioni della società  civile, sindacati e accademici, oltre a interpellare rappresentanti della Direzione nazionale antimafia e delle questure.
I numeri ufficiali sulla presenza e le ore lavorate dalla manodopera migrante in queste zone sono già  di per sé elevati: a Latina, ad esempio, uno su tre fra questi lavoratori agricoli è nato all’estero; mentre nell’area di Caserta la popolazione migrante conta circa 23.000 persone, ossia il 2,5% del totale, per gran parte impiegata nella raccolta di pomodori e frutta. Nel 2010, e quindi ancora due anni fa, sempre secondo stime ufficiali, l’incidenza del lavoro migrante nel settore primario era tale da riempire il 23,6 delle giornate lavorative. Si sa però che oltre le statistiche degli istituti si apre la voragine del sommerso. Così, nell’area della città  laziale, secondo Giovanni Gioia della Flai-Cgil locale, i lavoratori agricoli immigrati arriverebbero all’80%, mentre a Castel Volturno, in Campania, a fronte dei 2900 censiti, i braccianti nati all’estero raggiungerebbero i 7000. Una popolazione itinerante che, almeno nel nel secondo caso, si sposta secondo le stagioni di raccolta in altre parti d’Italia.
Il contratto provinciale concluso tra sindacati e organizzazioni degli imprenditori agricoli prevederebbe, nella zona di Latina, 6,5 ore di lavoro al giorno, sei giorni alla settimana, per un salario orario lordo di 8,26 euro. Quando però Amnesty International ha visitato l’area, nel giugno 2012, molti braccianti agricoli indiani (che là  sono numerosi, circa 7000) lavoravano 9-10 ore al giorno dal lunedì al sabato e poi mezza giornata la domenica mattina, per circa 3-3,50 euro l’ora. Lo stesso accade a Caserta, dove la paga minima, contrattata fra le parti sociali, dovrebbe essere di 5,70 euro l’ora. Anche qui infatti le regole non valgono, e i lavoratori che nelle prime ore del mattino fanno la ressa nelle rotonde e nelle piazze per essere arruolati a giornata, si ritrovano a disputarsi una «paga standard di 20-30 euro, cioè non più di 3,75 euro l’ora».
La politica migratoria italiana fa poi la sua parte, in negativo. Per Amnesty, il cosiddetto «decreto flussi» non riduce ma aumenta il rischio di sfruttamento a cui sono esposti i lavoratori immigrati.
Oltre alla sistematica sottostima della domanda reale di lavoro migrante operata con le quote d’ingresso, senza la cooperazione dei datori di lavoro essi non possono nemmeno fare domanda per un permesso di soggiorno.
Se si aggiungono i nove mesi che le lungaggini burocratiche impongono per il rilascio di un «nulla osta al lavoro», si vede come la pretesa che i lavoratori migranti siano reclutati ancora nel loro paese d’origine sia piuttosto discutibile. Soprattutto, i permessi di soggiorno per lavoro subordinato o stagionale non possono per legge essere rilasciati a lavoratori immigrati che si trovino già  in Italia irregolarmente. Risultato? I lavoratori migranti irregolari non hanno altra scelta se non lavorare nell’economia informale.
Infine, il rapporto di Amnesty solleva la questione dell’accesso alla giustizia per le «vittime di sfruttamento lavorativo». Se la clandestinità  è un reato è impossibile per un lavoratore «clandestino» denunciare soprusi a un pubblico ufficiale.
La cosiddetta «legge Rosarno» del luglio di quest’anno, non basta a migliorare le cose. Per i lavoratori soggetti a «particolare sfruttamento», essa prevede infatti il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che però comporta la denuncia da parte loro del datore di lavoro e la cooperazione al procedimento penale: ma quante di queste vittime potrebbero non avere i requisiti per ottenere il permesso di soggiorno e, di conseguenza, non essere in grado di rimanere nel paese per fare uso dei ricorsi disponibili?


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