Prima la vita, poi il cinema La lezione del vero regista

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I grandi libri-intervista di cinema si possono dividere grosso modo in due categorie: ci sono quelli che vogliono «imporre» al lettore una visione critica (come fece Truffaut quando intervistò Hitchcock) oppure quelli che vogliono «risarcire» un regista ai loro occhi sottovalutato (come Bogdanovich con Welles o Michel Ciment con Losey). Ma la lunga conversazione tra Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore — Io lo chiamo cinematografo — fatica a rientrare in queste due definizioni. È ancora diversa e per certi versi sorprendente, perché alla fine delle sue 470 pagine ti accorgi che quello che interessava davvero all’intervistatore (e all’intervistato) è soprattutto un’idea di vita più che di cinema, un’atteggiamento morale più che cinefilo. Un ritratto dell’uomo prima che del regista.
Gli amanti di «Salvatore Giuliano» o di «Le mani sulla città » non si preoccupino: la carriera di Rosi è ricostruita e raccontata con passione e puntualità , a cominciare dalle primissime esperienze d’«aiuto» e ancora più indietro, quando il padre fotografo usava il figlio come «modello» per la pubblicità  di un cioccolatino purgativo (e lo scatto è riportato nel sedicesimo fuori testo di immagini), ma tra una pagina e l’altra, tra una risposta e l’altra, è soprattutto l’«uomo» Rosi che esce, con le sue passioni e i suoi dolori, le sue idee e i suoi dubbi, disposto a confessarsi e non solo a raccontarsi a chi gli sta davanti. Merito forse dell’età  (Rosi ha compiuto novant’anni il 15 novembre 2012) che sa meglio distinguere l’essenziale dal superfluo, merito anche della fiducia nell’interlocutore (l’amicizia tra i due registi risale a molto più indietro dell’occasione editoriale, anzi la seconda deriva dalla prima), ma si resta stupiti dalla franchezza e dalla sincerità  con cui un regista di tale fama è disposto ad aprire il proprio cuore.
Un cuore dove regna soprattutto la figura della moglie Giancarla, la cui tragica scomparsa (morta per le conseguenze di un incendio innescato dalla sigaretta che teneva tra le dita) gli ha lasciato un vuoto straziante. «Perdere una moglie con la quale hai vissuto cinquant’anni non è umanamente accettabile» è una confessione a cui non si è abituati nelle interviste sul cinema. Così come «tutto quello che ricordo di Giancarla mi dà  grande gioia, d’altra parte mi fa soffrire, perché Giancarla non c’è più. Quando mi si chiede: “Come stai?”, e come devo stare? E quando ti dicono: “Scrivi qualcosa, un racconto. Distraiti…”. Ma io non mi voglio distrarre. Perché mi devo distrarre? Certo, la sera quando vado a letto l’ultima immagine che ho negli occhi è Giancarla, e ce l’avrò per tutta la vita, ed è pesante… è pesante».
È la prova di un’umanità  che non rientra nelle categorie cinefile e che invece aiuta a capire quel suo modo di fare cinema e che lo ha spinto a «essere presente, non dico nella storia del mio paese, ma nella realtà  del mio paese, questo sì». Una voglia di curiosità  e attenzione che Rosi riconosce ai suoi «maestri» di professione (un capitolo si intitola significativamente «Aveva ragione Visconti», per testimoniare il debito di chi lo scelse come aiuto e gli insegnò molto) ma che Tornatore fa uscire soprattutto da un atteggiamento intellettuale, umano e affettivo prima che cinematografico.
Le pagine sulla figlia Francesca, nata dalla relazione con Nora Ricci e affetta dalla sindrome di Down (a cui Giancarla fece da mamma dopo la fine della relazione con l’attrice: un altro merito che Rosi non si stanca di sottolineare), quelle sulla figlia Carolina e sulle sue responsabilità  di padre (con Visconti che lascia una festa di Natale per essergli vicino aspettando il parto, visto il dramma della prima figlia: «Non lo dimenticherò mai nella vita») si intrecciano così alla ricostruzione di una carriera lunga e intensa, dove il nonno sarto e il padre fotografo accompagnano i ricordi di una gioventù napoletana e poi di una vocazione sempre più convinta.
Tornatore incalza e Rosi risponde in un dialogo dove si mescolano ricordi e riflessioni, ritratti di compagni di lavoro (Cristaldi detto «tabellina» per la sua precisione nei conti o il fido Pietro Notarianni, i cui soprannomi riempiono un paragrafo intero), ricordi di colleghi (Fellini, Scola, la passione per i jeans di Jacques Becker), riflessioni politiche (ce n’è anche una su Monti e sulla speranza che modifichi «la nostra volontà  di compiacere e di arrivare al compromesso») e piccole o grandi manie (come quella di portare i protagonisti dei film dal suo parrucchiere per un taglio propedeutico al personaggio da interpretare. O dal suo sarto). Oltre che naturalmente lunghe e appassionanti ricostruzioni della realizzazione di tutti i suoi film.
Così che, quando chiudi l’ultima pagina, nell’impossibilità  di presentarti a casa di Rosi per avere il piacere di condividere la sua amicizia, ti vien voglia di correre subito a rivedere tutti i suoi film.


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