Katherine Mansfield, La scrittrice che ingannò il destino
E Samuel Kotelianksij: «L’amavo talmente che i suoi scritti erano e rimangono per me una delle manifestazioni meno importanti di lei. È il suo essere, cosa era, l’aroma del suo essere che io amo. Katherine poteva fare cose detestabili, ma il modo con cui le faceva era ammirevole, unico». Oggi, novant’anni dopo la morte della Mansfield a Fontainebleau, Nadia Fusini la ama con la stessa appassionata delicatezza, e le dedica un libro molto bello e bizzarro (La figlia del sole, Mondadori, pp. 154, 18). Bizzarro perché il racconto si maschera dietro una cornice fittizia: ma questo elemento fittizio rende più intensa e inquieta la rappresentazione della immaginaria «figlia del sole».
Nella lettera a un’amica pittrice, la Mansfield raccontò di come, al mercato, si fermò davanti a un carretto di mele e rimase stupefatta a guardarle. Non aveva altro desiderio che diventare quelle mele. E chiedeva all’amica: «Quando dipingi le mele, senti che il tuo seno e le tue ginocchia diventano mele? O ti sembra una sciocchezza?». Come la Mansfield, anche Nadia Fusini pensa che non sia affatto una sciocchezza. Desidera identificarsi con il suo modello. Affonda, sprofonda dentro di esso: si ritrova in un mondo in cui si sente un’immigrata e una straniera. Diventa la Mansfield, e lascia a questa straniera dentro di lei il dono di esistere liberamente. Ma è complicatissimo diventare sia una mela sia una scrittrice: perché in entrambe si nascondono molte e misteriose esistenze; a tratti la Fusini deve abbandonare il suo modello, e perdersi in un più ampio respiro.
* * *
Qualche volta, gli amici avvertivano nella Mansfield una strana qualità animalesca. Alfred Richard Orage, che pubblicò i suoi primi racconti, la chiamava the marmozet, l’uistiti. Virginia Woolf scriveva: «La donna inscrutabile rimane inscrutabile. Mi è venuto in mente che è una specie di gatto, estraneo, riservato, sempre solitario, osservatore». Una scimmia, un gatto: a distanza di sette anni, Orage e la Woolf ebbero la stessa impressione; avvertendo nella Mansfield quell’imperscrutabilità enigmatica, quell’ostilità all’uomo, quella estraneità alla vita, che possono essere propri sia di un animale sia di uno scrittore.
Come racconta Nadia Fusini, il gatto inscrutabile soffrì moltissimo. Una mattina, il 19 febbraio 1918, a ventinove anni, la Mansfield si svegliò presto, andò alla finestra e la spalancò: il sole si era già levato, e lei lo salutò con un verso di Shakespeare: «Ecco l’allodola gentile stanca di riposare». In quel momento le salì alle labbra un fiotto di sangue: sangue rosso e arterioso. Guardò e capì: era la sua prima emorragia. Si spaventò a morte. Giorni più tardi osservò: «Che cosa strana, da quando ho sputato sangue, l’amore, il desiderio del mondo e della natura si sono fatti più forti in me d’ora in ora».
Aveva sempre cercato di liberarsi dal senso della finitezza: chiedeva in tutte le cose l’illimitato. Ora si rese conto che l’unico infinito che gli uomini possono conoscere è il dolore. Alla sofferenza umana non c’è limite. Il dolore è l’eternità . Ma trovò nella profondità di sé stessa una calma capacità di accettazione. Accoglieva il dolore, se ne lasciava sommergere, faceva di esso una parte della propria esistenza, perché soltanto così, accettandolo pienamente, esso subiva una trasformazione, e diventava gioia e amore.
Ci sono persone a cui la malattia appartiene, o che piuttosto appartengono alla malattia. La Mansfield non era di queste. La malattia le venne imposta. Come scrisse dalla Svizzera a un giovane amico, «sono tisica. Ma la tisi non mi appartiene. Non è che uno spaventoso cane randagio che, da quattro anni, persiste a seguirmi; così io cerco di farlo perdere tra queste montagne». Visse esiliata nella «terra oscura» della malattia: ne colse tutte le ricchezze; ma, invece di allontanarla dal mondo, la malattia la fece diventare più intensa e presente. C’era nella sua anima una forza, una fiducia, un ardore fantastico che sarebbero bastati a decine di esseri umani.
Il culmine della sua vita, della sua vera vita, furono i mesi del 1921 e del 1922 trascorsi a Montana, nello Chà¢let des Sapins, insieme al marito. Lì vicino Rilke scriveva le Elegie duinesi e i Sonetti ad Orfeo. Quando venne l’inverno, il marito sciava, lei andava in slitta, il gatto ronfava. Passeggiava, giocava a cribbage, dopo cena leggeva Shakespeare, Proust e la Austen, discorreva di Proust col marito, e lavoravano tutti e due a maglia in modo frenetico. Notte e giorno scriveva racconti, in una specie di gara col tempo: aveva paura di morire senza aver finito di scrivere un racconto, e subito ne cominciava un altro. Era convinta che, finché correva con la penna, la morte non l’avrebbe fermata.
Scrivere, per lei, era diventato una religione. «Sarò capace di esprimere un giorno il mio amore del lavoro — il mio desiderio di diventare uno scrittore migliore — il mio voto fervente di un lavoro più coscienzioso? Di dire questa passione che provo? Essa mi tiene luogo di religione, perché è la mia religione; della compagnia degli altri, perché crea i miei compagni; della vita, perché è la vita. Sono tentata di inginocchiarmi davanti al mio lavoro, di prosternarmi, di restare troppo a lungo in estasi davanti all’idea della creazione».
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Quando, il 30 gennaio 1922, lasciò Montana, cadde o per meglio dire si precipitò nella catastrofe. Non accettava la piccola guarigione dello Chà¢let des Sapins. I racconti non le bastavano più. Voleva guarire completamente: diventare una «figlia del sole»: ciò che non era mai stata, come (malgrado il titolo del libro) la Fusini racconta con scrupolosa attenzione. Voleva vivere — piena, intera — la vita del corpo. In realtà , tutte le parole che in quei mesi scrisse nel diario e nella lettera, ci ingannano: perché il nitido candore della sua mente si era offuscato e ottenebrato. Desiderava morire: al più presto, selvaggiamente, ferocemente. Ma, siccome il suo debole corpo continuava a resistere, cercò un assassino: lo trovò subito, perché nulla è più facile, in qualsiasi tempo e luogo, che trovare un assassino.
Il suo spettacoloso assassino fu George Gurdjeff, che aveva costruito, a Fontainebleau, l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo. Come racconta la Fusini, era un uomo imponente, corpulento, tarchiato, con enormi baffi, e la testa, perfettamente rasata, a volte incoronata dal cappello di astrakan, emanava una forza sinistra. Era circondato da un fastoso e farsesco alone di favole: si diceva che fosse stato un agente segreto nel Tibet, che conoscesse i monasteri della Mongolia, che avesse studiato coi sufi, coi dervisci, e con gli anacoreti del Monte Athos. Gurdjeff torturava i suoi discepoli: voleva che rinunciassero ad ogni desiderio, riducendosi in una condizione di passività assoluta. Con la Mansfield, condusse all’estremo i suoi paurosi esercizi. Dapprima la fece abitare in una stanza bella e sontuosa; poi la trasferì in uno stanzino freddo, piccolo e povero, uno di quei covili dove dormono nella sporcizia i personaggi di Dostoevskij e di Kafka.
Il grande mistificatore continuò a torturare per qualche mese la piccola neozelandese tremante di freddo nella sua pelliccetta. Le impose di pelare le carote, le rape, le patate, assistendo nella cucina agli esercizi culinari della moglie. Le impose prima di danzare nuda in mezzo ai maiali, poi di inalare il fetore delle mucche nella stalla, in modo da accogliere in sé la «radiazione del magnetismo animale», che avrebbe dato forza ai suoi polmoni malati. Sopratutto la obbligò a non scrivere né racconti né lettere: la vera salvezza della Mansfield. Dapprima, la Mansfield disse che Gurdjeff le sembrava «un venditore di tappeti a Tottenham Court Road». Poi chinò il capo. Si lasciò assorbire, svuotare e distruggere; sembrava una bambina stupita ed atterrita, attonita e balbettante.
La sera del 9 gennaio 1923, quando il marito andò a trovarla all’Istituto, Katherine Mansfield ebbe un accesso di tosse mentre rientrava nella propria stanza. Un gran fiotto di sangue le uscì dalla bocca e parve soffocarla. In pochi minuti era morta, «con gli occhi spalancati dal terrore».
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