I beni non comuni nelle terre di camorra

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Di fianco c’è la staccionata dei 100 passi, che quando li conti simbolicamente percorri la strada che va dalla casa di Peppino Impastato a quella di Tano Badalamenti. Una linea immaginaria da Cinisi a Castelvolturno, tra bufale, balle di fieno e trattori, ci troviamo nelle Terre di Don Peppe Diana. E che non sia un caseificio come gli altri lo si comprende subito. Come tutte le proprietà  sequestrate alla mafie e fatte rivivere onestamente dalle cooperative sociali, in base alla legge del ’96, è una scommessa di riscatto sociale per Libera, per lo Stato, per 5 ragazzi che hanno avuto in “affido” l’ex scuderia di Michele Zaza creando una piccola impresa sana e virtuosa. Così dove uno dei boss più temuti in Campania negli anni ’80, vendeva e comprava stalloni purosangue, nascondendo contemporaneamente nei capannoni sigarette di contrabbando e armi per il clan, ora si produce la mozzarella migliore della zona. Enrico Massimilla, trattorista, Massimo Rocco e Mario Minieri entrambi aiuti caseario, Roberto Fiorillo agronomo, Teodosio Perrone responsabile prodotto sono i giovani di questa avventura, selezionati tra 160 coetanei che hanno risposto al bando pubblico del comune e sponsorizzato da Libera, l’associazione antimafia.
Qui nella cooperativa intitolata al prete anticamorra ucciso dai casalesi nel ’94, si arriva alle cinque del mattino e si inizia a manipolare la mozzarella. Sugli scaffali allineati i vini dei Cento passi che arrivano da Corleone, la farina delle terre libere dalle mafie, e ancora pasta, zuppa di ceci e lenticchie, cioccolato. Il caseificio ha aperto da 6 mesi, ma riesce già  a produrre quasi quattro quintali di mozzarella alla settimana, mandando i prodotti in tutte le botteghe dell’Altro mercato. Le consegne le fanno direttamente i ragazzi. Quest’estate è stato incendiato un campo di grano a Pignataro Maggiore, probabilmente una ritorsione, ma loro vanno avanti a testa alta. «Non siamo scappati dalle nostre terre e vogliamo rimanerci – racconta Massimo Rocco – sappiamo che abbiamo un dovere anche dal punto di vista etico. Dobbiamo dimostrare a noi stessi e alle popolazioni che sconfiggere le mafie è possibile». Certo è una goccia nel mare dei beni sequestrati, ma è un buon punto di partenza per dimostrare che quando le istituzioni riescono a seminare, i risultati si ottengono.
Le imprese però falliscono
Eppure si fa ancora troppo poco. La realtà  è che i meccanismi vischiosi della burocrazia spengono troppo spesso gli entusiasmi. Lo conferma Roberto Iovino dell’Ufficio legalità  Cgil con sede a Roma: «Le cose non vanno affatto bene. Su un totale di 11mila beni nel nostro paese solo 3500 vengono assegnati, di questi il 20% crea lavoro l’altro 80% è sottoutilizzato o è improduttivo, mentre il pensiero vincente dovrebbe essere riuscire a fare impresa sul serio, perché se quello che togli ai clan lo riutilizzi allora diventa un esempio concreto da seguire nei nostri territori martoriati dalla criminalità ». Purtroppo i numeri raccontano un altra storia, soprattutto per quanto riguarda le aziende. Finché restano in mano alle mafie creano lavoro e rinforzano il tessuto sociale che funge da indotto, una volta sequestrate il 99% è destinato a fallire. Attualmente sono 1636 le aziende confiscate in via definitiva, dall’inizio della crisi sono aumentate del 65%, ma potrebbero essere 10 volte di più se ci fossero i mezzi per farle uscire allo scoperto. I lavoratori coinvolti sono 80 mila, di questi almeno 72 mila, nella maggior parte dei casi inconsapevoli di lavorare per mafiosi, sono finiti in mezzo a una strada. Stime che fanno venire la pelle d’oca, in Campania si contano decine di casi tra cementifici, tessili e aziende agroalimentari che hanno chiuso i battenti. «È un paradosso che non ci possiamo permettere – continua Iovino – le persone non devono perdere il lavoro se intervengono le istituzioni. Tanto più che il ministro Elsa Fornero ha abrogato un ammortizzatore sociale specifico, quello della cassa integrazione per i lavoratori dei beni confiscati. Un pessimo segnale che alimenta la sfiducia nelle popolazioni». Basti pensare che attualmente c’è solo un’azienda nel nostro paese che è riuscita a non chiudere. «È la Calcestruzzi Ericina di Trapani che trasforma gli scarti dell’edilizia – spiega Mauro Baldascino dell’Osservatorio provinciale casertano dei beni confiscati – una cooperativa realizzata solo grazie alla volontà  del prefetto Sodano e l’impegno di Libera. Ma altri casi non ce ne sono, forse l’unica via d’uscita sarebbe arrivare alla confisca prima che i mafiosi riescano a distruggerle. Invece vengono consegnate ormai decotte e con nessun futuro davanti».
Un’agenzia senza benzina
L’altro problema, non meno importante, riguarda l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, istituita dall’ex ministro Roberto Maroni, ma quasi come pro-forma visto che nei fatti risulta sprovvista di mezzi elementari per essere esecutiva. «È inconcepibile che con 10 mila beni confiscati all’anno siano impiegate trenta persone che devono stare dietro a quanto accade in tutta Italia». Fabio Giuliani è arrabbiato, e per Libera si occupa proprio di beni sottratti alla camorra, non riesce ancora a credere che il governo Monti non abbia dato vitalità  a uno strumento così prezioso per ribaltare la situazione. «È come un gatto che si morde la coda il bene riutilizzato dalla collettività  ha una valenza incomparabile – spiega Giuliani – quando un luogo prima considerato off limit o utilizzato come mezzo di ostentazione del potere mafioso viene restituito alla gente rappresenta il simbolo di uno stato in grado di dare garanzie» . Al contrario l’Agenzia ha le mani legati e così nella maggior parte dei casi ville, aziende, casali vengono messi all’asta: «E chi è che ha la liquidità  necessaria per rilevarli? Addirittura i clan riescono a impedire che vi siano concorrenti disposti ad acquistare gli immobili. Una vergogna, perché ogni bene che finisce nuovamente nelle mani della camorra è una sconfitta devastante».
Una radio a casa di Birra
Eppure scavando, scavando nella galassia delle confische qualche altro esempio che infonda un po’ di ottimismo pure si trova. Uno è Radio Siani, l’emittente intitolata a quel Giancarlo giornalista del Mattino giustiziato dai Gionta sotto richiesta dei Nuvoletta nel 1985. È nata poco lontano dal luogo dove, con frequenze pirata, il clan Iacomino-Birra mandava messaggi in codice ai suoi affiliati decidendo quelle esecuzioni contro la famiglia Ascione, in una delle faide più lunghe e sanguinarie del vesuviano. Siamo nella casa del boss Giovanni Birra arrestato nel 2007 durante l’operazione Reset che ha smantellato la cosca. Qui tra pareti schermate, bagni d’oro zecchino e rubinetteria numerata vive la Radio antiracket. Ad animarla anche in questo caso un gruppo di giovani volontari che nel 2009 hanno raccolto l’invito dell’allora sindaco Nino Daniele e si sono insediati nel centro di Ercolano diventando un’emittente anticamorra. Amalia De Simone, Giuseppe Scognamiglio, Carlo russo, Giulio incoronato, Ciro Oliviero sono le colonne di questa avventura che dura ormai da oltre tre anni. Un’iniziativa che non è mai andata giù ai familiari del clan, in un tessuto sociale dove l’antistato è fortemente presente. Solo lo scorso aprile Franco Sannino, nipote del boss, appena uscito dal carcere si è intrufolato, nascondendosi tra i ragazzini di una scolaresca in gita, minacciando di morte i giornalisti. Poi fortunatamente è stato portato via di peso da uno dei suoi. Fermato subito dai carabinieri con uno sfollagente nascosto nei pantaloni, è stato condannato a due anni ed è nuovamente in carcere. «Non siamo spaventati – spiega Giuseppe Scognamiglio coordinatore della Radio – anche se sappiamo che può succedere ancora. Ma in una città  come Ercolano devastata dalla camorra, recuperare un bene confiscato significa dare un messaggio di fiducia al territorio. Siamo la prova che se si lavora uniti per un ideale comune ce la si può fare a sconfiggere le mafie. Motivo per cui cerchiamo di essere un luogo di attrazione per i giovani, un riferimento culturale e di informazione libera».
La Nuova cucina organizzata
Peppe Pagano è un uragano di energia, lo incontriamo prima della sua partenza per Bruxelles dove presenterà  al Parlamento europeo il progetto a cui è legato da tre anni: «Facciamo un pacco alla camorra». Si tratta di un cestino con i prodotti coltivati dalla Nuova cooperativa organizzata, la Nco, acronico della più tristemente nota Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo che fece strage a Napoli e in Campania negli anni ’80. Lì la morte qui la vita. Una campagna che l’anno scorso è riuscita a vendere a Natale oltre duemila pacchi con i frutti del lavoro onesto di cittadini fortemente motivati. Poche settimane fa sono stati anche inviati 2800 cestini in Germania in un’altra piccola-grande rivincita delle Terre di Gomorra. Lui, Peppe, ha una teoria spicciola ed efficace: «Il nostro è il tentativo di una rivoluzione dal basso, è la voglia di fare un’imprenditoria sociale tesa sempre di più a contaminare il mercato, ma tutto ha un senso solo se riusciremo a coinvolgere l’intera comunità . Se serve solo a noi abbiamo già  perso». Dunque l’idea è che le popolazioni siano consapevolmente partecipi nel recupero del territorio, che l’impresa faccia scuola in un’ottica di riorganizzazione dell’economia da illegale a legale. Questo acquista valore aggiunto a San Cipriano d’Aversa, in provincia di Caserta, nelle terre avvelenate dai casalesi, dove Pagano con la cooperativa Agropoli ha anche aperto un ristorante-pizzeria coinvolgendo uomini e donne che provengono da percorsi manicomiali. Un’isola nel deserto di comuni come Casal Di Principe, Villa Literno, Casapesenna dove i casalesi, per decenni, hanno mantenuto sotto scacco la vita dei cittadini. La cooperativa nel 2009 ha rilevato la villa del sanguinoso killer Sirto, investito di tasca propria 50mila euro e ha trasformato la tana della camorra in un luogo aperto, la “Nuova cucina organizzata”.
Ma Peppe Pagano guarda oltre. Il suo progetto è riconvertire la provincia di Caserta, dando ai contadini una possibilità  di guadagno, mostrandogli quanto sia più conveniente coltivare le proprietà  invece di fare accordi con i clan e devastarle con i traffici delle ecomafie. «Bisogna modificare il sistema dalla base, da lì dobbiamo partire, fare una mappatura delle aree inquinate e se non ci sono i soldi per le bonifiche vietare le coltivazioni – spiega – Abbiamo avuto dalla natura zone fertilissime dove si possono ricavare anche quattro raccolti l’anno, ma bisogna cambiare approccio, puntare sul biologico, il prodotto contaminato diventare cibo da dare ai nostri figli». Per Pagano il motto deve essere chi mangia sano mangia campano, niente più chip business ma una rivoluzione che schiacci le ecomafie. Un sognatore? «La mafia è una montagna di merda», Peppino Impastato.


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