UN LEADER FORTE
Da queste primarie esce un leader forte, legittimato dal voto di tre milioni di italiani che credono nella democrazia e chiedono buona politica. Un leader che ottiene un quasi plebiscito e prevale nel fuoco di una battaglia finalmente vera, dove al contrario delle vecchie primarie di Prodi l’esito è stato davvero incerto e l’offerta è stata davvero plurale.
Da queste primarie esce un partito nuovo, già cambiato nell’articolazione interna e nella proiezione esterna. Un partito che si è scopre aperto, scalabile e comunque contendibile, dove al contrario della tradizione Ds-Pds-Pci non funzionano più i veti incrociati dalemianveltroniani né i blocchi imposti dai comitati centrali. C’è ancora molta strada da compiere, alla ricerca di una chiara identità politica. Il problema di cosa sia oggi un Pd nato per fondere le culture del cattolicesimo ex democristiano e del socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi con Sel e Udc per “unire progressisti e moderati”, resta tuttora irrisolto. E sta lì a dimostrare che il progetto è tuttora incompiuto.
Ma queste primarie rappresentano comunque un cambio di fase. Senza falsi ecumenismi, senza vuota retorica: il merito è di chi ha vinto, ma anche di chi ha perso. Bersani ci ha messo la faccia e la passione, rinunciando a usare lo Statuto come un’arma di autodifesa e a brandire il vecchio “pugno del partito” contro il giovane sfidante. Renzi ci ha messo l’ambizione e l’irruenza dei suoi 37 anni, contribuendo al ricambio del personale e del linguaggio politico. Il pragmatismo riformatore, di ispirazione socialdemocratica, ha avuto la meglio sul nuovismo rottamatore, di matrice post-ideologica. Il saldo finale è positivo, per tutti. E il risultato delle primarie, trasformate impropriamente in un congresso a cielo aperto, dimostra che dentro lo stesso partito di una moderna sinistra europea possono convivere anche idee diverse sul lavoro e sul fisco, sul Medioriente e sui diritti civili. Purché non siano antitetiche, o tanto vaghe da sconfinare in un “oltre” dove non sai più chi sei, quando parli di precari e di Fiat, di esodati e di spread. E purché, dopo la conta, prevalgano la disciplina e la logica della maggioranza.
Ora per Bersani comincia una missione nuova. Non si tratta solo di pacificare un Pd spaccato lungo la faglia renziana del “nuovo” contro il “vecchio”. E non si tratta nemmeno di ricompattare un centrosinistra attraversato dalla frattura tra “moderatismo” e “radicalità ”. In gioco, di qui al voto della primavera 2013, c’è molto di più. C’è il governo del Paese. C’è la sfida dell’accreditamento in Europa, dove un pezzo di establishment continua a considerare la sinistra italiana inaffidabile e figlia di un dio minore. C’è la complessa sfida delle alleanze, perché la mitica “autosufficienza” del Pd (giustamente inseguita anche da Renzi) è il sogno di tutti, ma se il Paese o la legge elettorale non ti danno abbastanza voti per farcela da solo, sei obbligato a dialogare con Vendola che reclama “profumo di sinistra” e con Casini che pianta i suoi paletti al centro. C’è il confronto dialettico con il “montismo”, e la definizione di un’Agenda che lo integri e lo superi sui temi della giustizia sociale e della crescita economica.
C’è soprattutto la conquista di una maggioranza più larga possibile. Tanto larga da superare i diversi “tetti” al premio elettorale di cui si discute nella riforma dell’orribile Porcellum, se mai le disperate follie berlusconiane la renderanno possibile. Parliamo di una “forchetta” di consensi che oscilla tra il 38 e il 42,5%. Un risultato non proibitivo, per un Pd che dovrà essere capace di guidare una coalizione omogenea e coesa. Ma comunque molto impegnativo per un partito che al suo meglio, nell’ultimo test del 2008 giocato sulla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, non è andato oltre il 33%. I sondaggi di oggi fotografano il partito nuovamente a ridosso di quel record. Ma a gonfiare le vele è il vento di queste primarie, che è naturalmente destinato a calare di qui alla prossima primavera.
Bersani, adesso, ha il compito di alimentare quel vento con la politica. Con l’autorevolezza che gli deriva dalla netta vittoria su Renzi. Ma con la consapevolezza, paradossale e tuttavia oggettiva, di avere qualche handicap in più dell’avversario interno che ha appena sconfitto. Gli elettori di centrosinistra, nonostante il fragore della grancassa rottamatrice che promanava dal camper del sindaco di Firenze, hanno premiato l’usato sicuro. Ma di quella campagna resta un’eco che non deve essere dispersa, anche se chi l’ha condotta rinuncia ai sogni di Palazzo Chigi e rientra nei ranghi di Palazzo Vecchio. Resta una domanda di cambiamento profondo, che il Pd non può rinchiudere con un sospiro di sollievo negli armadi della Storia, insieme al renzismo che in questi mesi quella domanda l’ha urlata in tv, nei teatri e nelle piazze d’Italia. Un ticket Bersani-Renzi sembra auspicabile quanto impraticabile. Ma i duellanti hanno comunque un patto tacito da onorare. Il primo deve continuare l’opera di modernizzazione del Pd, respingendo ogni tentativo di restaurazione. Il secondo deve dare il suo contributo, rifiutando ogni tentazione di rottura o di vendetta.
Secondo l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato sul Sole 24 Ore alla vigilia del primo turno, una coalizione di centrosinistra guidata dal segretario del Pd vincerebbe le elezioni con il 35% dei voti, mentre se la stessa fosse guidata da Renzi (ipotesi a questo punto irrealizzabile) otterrebbe il 44%. Bersani, dunque, può fare il pieno di voti a sinistra, mentre un candidato premier come il sindaco di Firenze avrebbe sfondato il perimetro tradizionale pescando consensi un po’ ovunque. Nel centro moderato (dove si intruppano troppi Casini e personaggi ancora in cerca d’autore come Montezemolo o Passera sognano di rubare l’ago della bilancia al leader dell’Udc). Nella destra sbandata (dove regna il caos e gli aruspici berlusconiani sono ormai costretti a consultare le interiora di uccello per venire a capo delle ciclotimie quotidiane del Sovrano Cavaliere). Nell’area della protesta o dell’astensione (dove comincia ad affiorare qualche stanchezza per i “vaffa-days” del comico genovese e si affievolisce il livore qualunquista che vuole l’intera politica svilita a un “saloon” popolato da “todos caballeros”).
In una logica di ferrea militanza, o comunque di fedele appartenenza, questi consensi possono non interessare. Ma è chiaro che una proposta di governo non solo credibile, ma soprattutto durevole, passa anche attraverso una “pesca” fruttuosa in questo ampio bacino di voti alla deriva. E non basta certo evocare il parroco o il Papa Buono (dimenticando scientemente e colpevolmente Gramsci e Berlinguer) per riempire le reti. Serve la fatica e la pazienza del riformismo. Cioè di una sinistra compiuta. Consapevole dei suoi valori, che soprattutto oggi, nel tempo troppo liquido della libertà globale, non possono prescindere dall’uguaglianza e dalla solidarietà . Una sinistra che sa includere e sa innovare, ma senza perdere la sua identità . Ora tocca a Bersani dimostrare che questa sinistra «non l’ammazza più nessuno ». Che questa sinistra esiste, può vincere e — con Monti o senza Monti — può persino governare l’Italia.
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