E Pier Luigi disse: meglio affidabile che carismatico

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Bersani non ha carisma, ma ha una sua luce negli occhi, che si accende di fronte a una storia, un libro, una questione che lo interessa; ed è raro che qualcosa non lo interessi. È un uomo con i suoi limiti, come tutti. Ma i limiti di Bersani non sono quelli che di solito gli vengono attribuiti. Ad esempio non è affatto una personalità  debole, tendente al compromesso, bisognosa dell’appoggio altrui; al contrario, si è preso il partito con pazienza ed energia, si è liberato sia degli avversari sia degli amici ingombranti, si è sottratto ai condizionamenti non solo di Veltroni ma soprattutto di D’Alema, della Bindi, dello stesso Prodi (anche se si è circondato di qualche quarantenne che ha la stessa arroganza di D’Alema senza essere D’Alema). Il limite di Bersani coincide con quella che viene considerata una sua forza, e l’ha condotto alla vittoria di ieri: il radicamento nella storia del Partito e nella sua cultura; che nel frattempo però è molto cambiata. Per questo la prova decisiva non è stata quella delle primarie, ma sarà  il voto nazionale di inizio 2013.
Bersani pensa ancora il proprio come il Partito degli oppressi, degli sfruttati, dei proletari. E in effetti la sinistra per vincere avrebbe bisogno anche del voto popolare; che però le sfugge da decenni, e non sarà  facile riconquistare a suon di nuove tasse. Da decenni gli operai lombardi e veneti votano Lega, le casalinghe e i disoccupati del Sud stanno con Berlusconi, mentre ora studenti e precari guardano a Grillo. Il Pd — proprio come il Ps di Hollande, non a caso il leader europeo con cui Bersani si trova meglio — è un partito innanzitutto di ceto medio dipendente, insegnanti, funzionari pubblici, pensionati, borghesia intellettuale, oltre che di emiliani e toscani; gente non proprio entusiasta della patrimoniale che apre la lista delle promesse di Bersani.
L’altra eredità  del Partito che ancora condiziona il neocandidato premier è la ricerca dell’accordo con i moderati, l’idea che la sinistra da sola può vincere in tutta Europa ma non in Italia, e quindi deve unirsi a chi di sinistra non è. È la linea di Togliatti e di Berlinguer, e ha come premessa fondativa la Costituzione repubblicana, la parola più citata nel libro intervista che Bersani ha scritto per Laterza con Miguel Gotor e Claudio Sardo, che sono oggi non casualmente il suo consigliere politico e il direttore dell’Unità . Ha destato ironie la scelta di indicare come mentore papa Giovanni. Se è per questo, Bersani dedicò la tesi di laurea a papa Gregorio Magno (più precisamente a «grazia e autonomia umana nella prospettiva ecclesiologica» del Pontefice). A chiedergli se crede in Dio, risponde citando Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità  la più grande forma di volgarità ».
Cattolici — e anticomunisti — erano i genitori. In particolare la madre: «Aveva la quinta elementare, ma è sempre stata un osso duro». Lo sciopero dei chierichetti è ormai celebre. Meno noto l’episodio del giovane Pier Luigi che affronta don Vincenzo, il parroco di Bettola: «Come mai qui in paese i comunisti fanno tutti i muratori, e gli altri vanno all’Agip? È vero che per andare all’Agip ci vuole la sua garanzia?». Divenuto a 29 anni assessore regionale ai Servizi sociali — era il 1980, il 2 agosto fu tra i primi ad accorrere alla stazione di Bologna —, alla madre che gli raccomandava i vicini di casa rispondeva: «Mi spiace, non si può» (si arrivò poi a un accordo: raccomandazioni sì, ma solo in caso di «indigenza estrema» e «grave menomazione fisica»). La linea del compromesso storico non convinceva né i genitori, né lui; e comunque in casa a lungo furono più turbati che soddisfatti dalla sua carriera, fino all’abbraccio con i Popolari di Prodi (anticipato da Bersani alle Regionali del ’95, quando federò il centrosinistra in un cartello chiamato Progetto democratico). Quando poi Prodi lo chiamò nel governo, all’Industria, don Vincenzo fece suonare le campane a martello. D’Alema la prese più prosaicamente: «Ma tu sei capace di fare il ministro?» («è un giudizio che lascio a te» fu la risposta).
Accanto al Partito, l’altra matrice di Bersani è la sua terra, l’Emilia. Un limite, per critici e imitatori che giocano sull’accento, in effetti un po’ caricaturale. Una forza, per lui: «Sono un pragmatico emiliano». A ricordargli che l’Emilia-Romagna dava alla sinistra voti e denari ma non leader, risponde citando i sindaci Dozza e Zangheri e anche Dossetti e Zaccagnini, che però stavano dall’altra parte, nella Dc. I compagni di liceo andarono tutti all’università  a Milano, tranne lui, che scelse Bologna. Cominciavano gli anni Settanta, e in città  Bersani fu tra i fondatori di Avanguardia Operaia, che attaccava il Pci da sinistra. In altri tempi ha amato il ribellismo da provincia modenese di Vasco Rossi. A De André ha detto, dopo un concerto: «C’è qualcosa di anarchico in me, e l’ho trovato nelle tue canzoni». Ama ripetere che «quando mi danno del burocrate lascio fare, e in cuor mio rido». Con Renzi ha adottato la stessa tattica: l’ha lasciato fare, sicuro che alla fine l’apparato e la base avrebbero fatto fronte contro il «giovanotto». Quanto al carisma, è una parola di cui diffida, come narrazione — «mi fa venire in mente le favole» — e fascinazione («da sola, è ingannevole»). «Carisma all’origine indica un dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa propria, non è carismatico ma presuntuoso». E ancora: «Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è quello che ha carisma, ma quello che offre maggiore sicurezza». Ieri, più o meno, è andata così.


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