ESTETICA DELL’INDIGNAZIONE
Non voglio portare l’arte nella politica ma fare politica nell’arte”, diceva Joseph Beuys, lo sciamano che dominò la scena culturale negli anni 70: chissà cosa penserebbe oggi di Ai Weiwei che trasforma il più diffuso video di pop demenziale mai visto sulla rete in un atto d’accusa contro Pechino, ballando il Gangnam Style con le manette ai polsi. E chissà come giudicherebbe Anish Kapoor che ha invitato 250 artisti e amici di tutto il mondo a manifestare solidarietà all’artista ribelle cinese imitandolo. E facendo, così, di Youtube il palcoscenico della lotta per la libertà di espressione. Sicuramente nessuno dei protagonisti pensa che questi video abbiano lo statuto di opere d’arte (anche se probabilmente prima o poi finiranno esposte in qualche museo). Però se anche uno scultore come Kapoor, il più lirico delle artistar contemporanee, uno che è abituato a mettere in scena il vuoto orientale, che realizza monumenti fatti di niente, sculture di vapore, sente il dovere di mobilitarsi, vuol dire che il vento (perdonate la parola) dell’impegno sta soffiando di nuovo forte dalle parti delle arti visive. Con buona pace dell’antipolitica.
L’ultima Biennale di Berlino era tutta dedicata all’arte politica. Contestatissima, è vero, ma non per il tema scelto dal polacco Artur Zmijewsky né per aver invitato Occupy Berlin, Occupy New York, Occupy Wall Street e via occupando. Piuttosto per la qualità delle opere (o non opere) presentate: fa quasi tenerezza l’ingenuo workshop di un pittore come Pawel Althamer che dipinge tutto il giorno in una chiesa sconsacrata insieme a chiunque ne abbia voglia. Ci vuol altro per aprire la fatidica torre d’avorio alla realtà sociale. E in fondo non è questa grande trovata — l’idea è di Khaled Jarrar — un timbro dello Stato palestinese da applicare sui passaporti. Lodatissima, invece, è stata la “Documenta” di Kassel curata da Carolyn Christov- Bakargiev, mostra-monstre
dichiaratamente senza tema, ma con molte opere politiche e con l’ambizione di aprire addirittura uno sportello in Afghanistan, attraverso un laboratorio di scultura a Bamiyan tra i resti dei Buddha distrutti, la ricerca dell’One Hotel di Boetti a Kabul, e due arazzi della distruzione realizzati da Goshka Macuga ed esposti uno nella capitale afghana e l’altro a Kassel.
Tema d’obbligo, quasi sempre, il Medio Oriente. Proprio a Kassel la palestinese Emily Jacir ha presentato un’installazione composta da foto fatte con un cellulare nella biblioteca di Gerusalemme: erano i libri abbandonati dai palestinesi durante l’esodo del ’48, con i loro disegni, appunti, nomi, labili tracce di esistenze perdute. Qualche anno fa la stessa Jacir vinse il Leone d’Oro under 40 alla Biennale di Venezia con un lavoro dedicato all’intellettuale palestinese Wael Zuaiter, assassinato a Roma da agenti segreti israeliani perché ritenuto, ingiustamente, uno dei mandanti della strage di Monaco. Sotto teca o incorniciati c’erano i reperti della vita di Zuaiter: foto, cartoline, manoscritti, traduzioni, articoli su di lui, e un libro perforato da uno dei 12
proiettili sparati dal commando. L’installazione si chiamava — mai titolo fu più preciso —
Material for a film:
niente di meno, niente di più.
Ma che cos’era in realtà ? Un reportage giornalistico, un archivio della memoria o un’opera d’arte? Chiederselo non ha più molto senso in questi tempi di assoluta libertà espressiva: non ci sono più canoni per rispondere. La domanda forse è un’altra e se l’è posta la più cool delle riviste specializzate, la londinese Frieze, che ha dedicato il numero di settembre al tema: ”Art as activism”. La domanda è: come mai? “Per alcuni — scrive la co-direttrice Jennifer Higgie — l’idea che l’arte possa produrre un vero cambiamento è risibile. Dopotutto anche la produzione più radicale fa parte di un enorme, sregolato mercato inondato di soldi, e basato sull’esistenza di personaggi ricchissimi, molti dei quali non sono così liberal e di sinistra come i loro acquisti potrebbero suggerire”.
Generalmente liberal, invece, è il pubblico dell’arte. Valery diceva che la pittura insegna a guardare. Oggi potremmo dire che insegna guardare gli orrori del mondo. E però rischia di sfondare porte aperte: chi guarda di solito ne è già edotto, e condivide indignazione e probabilmente anche un doloroso senso di impotenza. Forse è proprio qui la ragione della fortuna di tanta contro-estetica rivoluzionaria. La globalizzazione ha portato sotto gli occhi di tutti l’insopportabile ingiustizia che opprime la maggioranza degli uomini, si è sedimentata nell’inconscio pubblico, ed è di impossibile rimozione. Il complesso di colpa dell’Occidente può trovare così uno specchio, un riconoscimento, uno sfogo in un’arte radicale che consola le coscienze (false o vere che siano) e illude tutti di essere un po’ più buoni.
Sia chiaro: da Goya a Picasso, la grande arte ha sempre avuto un peso politico. Basta pensare a cosa rappresentò Guernica nel 1937, e a quanta forza racchiuda
ancora oggi: l’arazzo che riproduce il quadro alle Nazioni Unite fu coperto con telo blu quando si discusse l’intervento in Iraq. Gli americani dissero che fu per esigenze televisive, ma tutti sospettarono che l’ambasciatore Usa Negroponte e Colin Powell non volessero alle loro spalle immagini così potenti contro la guerra proprio mentre invitavano a farne un’altra.
Ma da qualche anno è tutto un fiorire di opere-manifesto: foto e video pacifisti, immagini disperate dagli slum, documentari sull’immigrazione, quadri-slogan, denunce della condizione femminile fanno da contraltare serio e arrabbiato a quella moda postpop brillante, leggera e dalle superfici
levigate (Murakami e Jeff Koons, per intenderci). E’ un’arte che vuole cambiare il mondo: non si occupa della condizione umana, ma delle condizioni degli uomini e delle donne di adesso, dei paesi dove vivono, delle loro vite. La tendenza, d’altronde, è generale visto che ha contagiato cinema, letteratura e persino la leggera tradizione del fumetto che ha generato l’impegnato e severo Graphic Journalism.
Gli esiti, naturalmente sono diversi: grandi artisti hanno conquistato la scena internazionale con opere che colpiscono per la loro estetica politica, se così si può dire. Le scritture che imprigionano come una gabbia i corpi delle donne della iraniana Shirin
Neshat, ad esempio, o i fili spinati della libanese Mona Hatoum, sono ormai celebri e uniscono un rigore formale ad una grande forza espressiva. Altri sono lavori più documentali e si affidano all’evidenza di ciò che mostrano, oppure sono pure e semplici forme di protesta, come i “No” di cui dissemina il mondo Santiago Serra. E magari servono a convincere chi convinto lo è già .
E allora? Se è vero — come dice Frieze — che per cambiare il mondo bisogna prima immaginarlo, il sospetto che l’estetica dell’indignazione sia chiusa in un circuito un po’ troppo autoreferenziale per produrre risultati, a qualcuno è venuto: e quindi via dal ghetto dorato, basta musei,
gallerie, collezioni. Così come Beuys piantava alberi sognando “sculture sociali”, oggi c’è un’arte pubblica — ne parla molto Anna Detheridge in un libro appena uscito per Einaudi chiamato, appunto,
Sculture della speranza—
che si occupa di territorio, si apre alle realtà sociali. E magari preferisce, come ha fatto Alberto Garutti, restaurare un piccolo teatro abbandonato invece di lasciare una scultura nella piazza del paese. Oppure realizza progetti umanitari: Massimo Grimaldi ha vinto il premio 2 per cento del Maxxi di Roma con un progetto per un ospedale di Emergency in Sudan: ha devoluto i 700mila euro della commissione per la costruzione dell’edificio. La sua
opera? Le foto e i video che al museo documentano la nascita dell’ospedale. E infine: il magico signore della luce Olafur Eliasson — celebre per il suo grande sole alla Tate Gallery — ha creato, insieme agli ingegneri con cui collabora, il Little Sun: piccola ma potente lampadina ad energia solare a basso costo. L’idea è di portarla in Africa e in quei paesi martoriati dove l’elettricità è ancora un miraggio. Il design non è chic (una margherita di plastica che neanche ai grandi magazzini) ma la luce è molta. E’ l’estremo sacrificio: l’arte che per rendere il mondo migliore rinuncia alla propria bellezza, e dunque un po’ a sé stessa
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