NADINE GORDIMER. “Corruzione, risentimenti e classismo eppure non tradirei mai il mio Sudafrica”

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C’è una coppia, molto in stile “new South Africa”, perché lui è bianco, lei è nera e tutti e due sono stati convinti militanti della lotta contro il regime dell’apartheid, negli anni Ottanta. A loro modo, entrambi persone atipiche: Steve, di madre ebrea ma di famiglia laica, ha rotto in gioventù con il suo ambiente di origine, per fare quello che gli sembrava giusto e doveroso; Jabulile, detta Jabu, è figlia di un uomo profondamente radicato nella tradizione africana, ma che l’ha fatta sfuggire all’ingiustizia dell’apartheid, mandandola all’estero pur di farla studiare.
Steve e Jabu si sono amati e messi insieme quando, nel loro Paese, per chi aveva la pelle di diverso colore era proibito farlo. Adesso che «è tutto dopo » – la Lotta (con la maiuscola) è finita, l’apartheid è crollato, il Sudafrica è diventato un Paese democratico – tornano in patria dall’esilio e mettono su casa a Glengrove Place, in un piccolo quartiere di Johannesburg che diventa un microcosmo del nuovo. Ci viene a stare gente di ogni razza, simpatiche coppie omosessuali, tutti rigorosamente progressisti, accomunati dagli stessi ideali, tutti vecchi compagni politicamente corretti. Anche Steve e Jabu con i loro «figli del cambiamento», una femmina e poi un maschietto. Ma anche nel Sudafrica liberato di Nelson Mandela può accadere che il passato non passi, e che la storia non finisca.
Così prende avvio, verso la metà  degli anni Novanta, per arrivare fino al 2009, la vicenda narrata in Ora o mai più, il nuovo romanzo di Nadine Gordimer (traduzione di Grazia Gatti, Feltrinelli, pagg. 428, euro 19). Ne abbiamo parlato con l’autrice dalla sua casa di Johannesburg, all’altro capo di una lunghissima linea telefonica. A 89 anni, quindici romanzi, dieci raccolte di racconti e un premio Nobel per la Letteratura (1991), ascoltiamo a lungo la voce di una persona amabile, mai stanca di interloquire e di raccontare. Forse diversa dall’intellettuale un po’ algida che avevamo incontrato per Repubblica è quasi un ventennio, più o meno all’epoca in cui prende le mosse questo suo ultimo romanzo. Adesso, per esempio, indulge a parlare del suo legame affettivo con l’Italia, perché qui vive, a Briaglia, in provincia di Cuneo, la figlia del suo primo matrimonio, Oriane («le detti il nome della duchessa di Guermantes, il personaggio di Proust»).

Il titolo originale del suo libro, No Time like the Present, si potrebbe tradurre in molti modi: come lo ha fatto l’editore italiano, ma anche “adesso è il momento migliore”. Suona ricco di molti significati possibili, anche ironici.«Il padre di Jabu, la protagonista, è un africano tradizionale ma anche un uomo fuori dall’ordinario. Ha avuto la possibilità  di leggere i libri della biblioteca in un’epoca in cui ai neri non era consentito. Così ha mandato a mente molte citazioni  e in particolare questa: “No Time like the Present”. Gli torna utile nel suo lavoro di insegnante, per rispondere a chi cerca di rinviare un impegno, un dovere. Insomma per lui quella frase ha un significato disciplinare ed è in questa accezione che Jabu la impara. Poi, quando è in esilio, impegnata nel movimento di liberazione, anzi nella sua organizzazione armata, incontra Steve, uno studente bianco, un compagno di lotta. Sono entrambi lontani dal Sudafrica, vivono in un tempo strano, diverso da ogni altro, “No Time like the Present”. Infine tornano in patria, cominciano quella che dovrebbe essere una vita normale, ma non ci riescono davvero, perché adesso cominciano a sentire le differenze culturali che ci sono tra di loro, nel rapporto con le famiglie di origine, nei pregiudizi con cui li guardano gli altri. Anche questo presente è diverso da ogni altro tempo».
«Lei era nera, lui era bianco », si legge nelle prime righe del romanzo, «l’unica cosa che a quel tempo costituiva l’identità  ». Si era ai tempi dell’apartheid: ma siamo sicuri che adesso non sia più così?
«Bisogna stare attenti. Noi sudafricani abbiamo vissuto un’epoca segnata da differenze orribili. Il giorno del 1994 in cui per la prima volta ci mettemmo tutti in fila e potemmo votare insieme fu il più straordinario della nostra vita. I neri sudafricani potevano finalmente fare un’infinità  di cose normali che prima erano loro
proibite, a cominciare dal potersi spostare liberamente da un luogo all’altro del Paese. Il che non significa che per altri aspetti i problemi siano da poco. Supponiamo per esempio che io bianco, e tu nero, facciamo domanda per lo stesso posto di lavoro. Abbiamo più o meno la stessa età , lo stesso titolo di studio, lo stesso curriculum. Ma la tua candidatura godrà  di una considerazione particolare, proprio perché sei nero, perché abbiamo alle spalle un lungo passato di ingiustizia, di discriminazione. È molto probabile che sarai tu ad ottenere quel posto. Supponiamo invece che il posto vada a me: allora io sarò oggetto, da parte tua, di un fortissimo risentimento. Decisamente non sono tutte fraterne pacche sulle spalle».
A un certo punto lei si chiede: «Come ci si può onestamente chiamare una nazione appena quindici anni dopo secoli in cui si è stati separati con la mannaia?. Come risponde a questa sua domanda?
«Ma certo che si può! Pensi al mio amico George Bizos. Arrivò in Sudafrica nel 1941, a tredici anni, come rifugiato, dopo essere scappato a bordo di un peschereccio, con suo padre, dalla Grecia invasa dai nazisti. Sette anni dopo, proprio quando stava cominciando l’apartheid, si iscrisse alla facoltà  di Legge. Al grande processo politico contro Nelson Mandela e gli altri capi dell’African National Congress, nel 1963, era tra gli avvocati difensori. Era un ragazzo greco, uno straniero, e ha costruito la nostra nazione».
Poco tempo fa lo scrittore americano Philip Roth, che ha dieci anni meno di lei, ha annunciato il suo addio alla letteratura: non scriverà  più. Lei ha mai pensato di fare altrettanto?
«Ho 89 anni, ho finito il mio ultimo romanzo 18 mesi fa. È troppo tardi per fare come Roth. Non conosco le ragioni della sua scelta. Ma posso capire che quando il tuo lavoro non ti soddisfa più, quando uno scrittore non riesce più a esprimere quello che vuole dire, se si arriva a questo punto, possa venir voglia di smettere».
A un certo punto Steve, il protagonista di Ora o mai più, pensa di gettare la spugna, di lasciar perdere tutto e di andarsene in Australia con tutta la famiglia…
«È la delusione a spingerlo. I motivi in Sudafrica non mancano e oggi, rispetto a quando ho finito di scrivere il romanzo, ce n’è anche di più. Le differenze di classe contano quanto, o insieme a, quella del colore della pelle. Quanto a me, considererei un tradimento andarmene. Anche se il nostro attuale presidente, Jacob Zuma, mi fa paura. Lui e la sua banda furono coraggiosi ai tempi della Lotta, soffrirono molto. Ma perché adesso che sono al potere sono così corrotti? C’è una corruzione incredibile in Sudafrica, è una vera tragedia. Posso capire il fardello del passato, la brama di venir risarciti delle privazioni patite. Ma capire non vuol dire giustificare».


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