Ma il debito resta insostenibile ed è scontro tra Merkel e Lagarde su una sua nuova ristrutturazione

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BRUXELLES. COME salvare la Grecia dalla bancarotta finanziaria e la Merkel dalla bancarotta politica? È questo, in sostanza, il dilemma che i ministri delle Finanze della zona euro si sono trovati ad affrontare ieri sera nell’ennesima riunione dedicata al caso greco.
LA QUESTIONE è assai complessa, ma può essere riassunta in termini relativamente semplici. La Grecia deve ancora ricevere 44 miliardi dei prestiti che le erano stati garantiti da parte dell’Unione europea. Questi soldi sono bloccati da giugno, perché, a causa delle due elezioni politiche di primavera in cerca di un governo che salvasse l’euro, il Paese ha deviato dal percorso di risanamento che aveva concordato con Bruxelles. Da giugno ad oggi, la Troika composta da Fmi, Bce e Commissione, ha negoziato duramente con il nuovo governo greco una serie di misure per riportare il bilancio sotto controllo. Atene ha assunto e rispettato tutti gli impegni che le sono stati chiesti. A questo punto, se non riceve al più presto i 44 miliardi dovuti, il Paese va in bancarotta.
Ma c’è un ulteriore problema. A causa del tempo perduto in primavera, e soprattutto di una recessione più dura del previsto, i 44 miliardi non bastano più a garantire che il Paese riporti il debito pubblico a livelli sostenibili, cioè al 120 per cento del Pil entro il 2020, come era stato concordato con la troika. L’anno prossimo, lo stock del debito greco dovrebbe arrivare al 190 per cento della ricchezza prodotta. Che fare? Su questo punto, le analisi dei governi europei e dell’Fmi divergono. L’Eurogruppo sarebbe favorevole a concedere una dilazione di due anni, fino al 2022, che comunque richiederebbe una forma di rifinanziamento per un ammontare che potrebbe arrivare a trenta miliardi. L’Fmi propone invece di mantenere la scadenza prevista del 2020 e di procedere subito ad una nuova ristrutturazione del debito. Dopo aver già  tagliato il valore dei bond greci in mano ai privati, questa volta si tratterebbe di sforbiciare il valore dei titoli acquistati da Stati e istituzioni europee per un importo non ancora definito.
E qui entra in scena il rischio politico per la Merkel. Dopo aver indicato la Grecia come prima responsabile del dissesto dell’euro con le sue politiche lassiste, la cancelliera non può permettersi di chiedere all’opinione pubblica tedesca un terzo salasso per venire in aiuto ad Atene. In condizioni sostanzialmente analoghe sono i governi di Olanda, Finlandia e Austria che, dopo aver cavalcato la tigre del rigore a tutti i costi, ora non sanno come scenderne e spiegarlo ai propri elettori.
La soluzione più semplice di questo dilemma apparente insolubile sarebbe un tipico compromesso “all’europea”: complimentarsi con la Grecia per gli sforzi fatti, sbloccare le quote rimanenti del prestito evitandole la bancarotta, e rimandare una ristrutturazione del debito, che è comunque inevitabile, a dopo le elezioni tedesche dell’autunno prossimo.
Ma su questa strada la Merkel si vede bloccare il passo da un’altra donna: Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale. La soluzione del problema greco, dice Lagarde, deve essere sostenibile, credibile di fronte ai mercati, e “a breve termine”. Altrimenti, lascia intendere, non si dissiperà  l’ombra che la gestione della crisi greca ha gettato sulla credibilità  dell’euro. Sul piano teorico, la direttrice dell’Fmi ha ragione da vendere, anche perché, sia pure mascherati da dilazioni sugli interessi o sui tempi di pagamento, toccherà  comunque ai contribuenti europei saldare i conti lasciati in sospeso dai greci. E più prendono tempo, più il conto sarà  salato. Ma sul piano politico questo è un prezzo che la Germania, a meno di un anno dalle elezioni, non è in condizioni di pagare. E, alla fine, le ragioni della politica rischiano di prevalere su quelle della finanza, anche se queste ultime, per una volta, sono certamente le più valide.


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