Israele ad Hamas: resa senza condizioni

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Un attimo dopo le finestre sono esplose e ci siamo ritrovati ricoperti di vetri e detriti. Grazie a Dio siamo tutti salvi». Parla a bassa voce Maher. In basso c’è il cumulo di macerie dell’edificio governativo. Le abitazioni sul lato sinistro sono tutte danneggiate gravemente. Quelle sulla destra invece appaiono quasi intatte. Stranezze dell’onda d’urto. Camminiano assieme a Maher tra utensili da cucina rotti, cuscini sventrati, quadri spaccati e tanti altri oggetti che facevano parte della sua vita quotidiana e che per poco venerdì notte non lo hanno ferito. «Sono vivo e mi sembra già  tanto», commenta alzando gli occhi al cielo. All’improvviso giunge il boato di una esplosione. Ci allontaniamo preoccupati. Maher invece resta fermo, indifferente. «Niente paura – ci dice calmo – hanno già  distrutto tutto qui, non sprecheranno un’altra bomba per queste macerie». Il bombardamento e la distruzione di una struttura imponente come il quartier generale del governo di Hamas, ha ulteriormente scosso la popolazione di Gaza. Le esplosioni sono state terrificanti anche sul ministero dell’Interno, polverizzato in pochi secondi, ma hanno anche danneggiato una scuola pubblica e una scuola media dell’Unrwa (Onu). Si può solo immaginare lo spavento, il terrore, che provano le persone, specie gli anziani e i bambini, per deflagrazioni tanto ravvicinate. Roba da morire d’infarto. Qui a Gaza i civili non hanno a disposizione rifugi pubblici o privati nelle case, per proteggersi. E non c’è neppure la sirena d’allarme che a Gerusalemme e a Tel Aviv allerta gli abitanti in caso di pericolo imminente. In questo martoriato lembo di terra l’unica cosa che un palestinese può fare quando gli israeliani bombardano è pregare. Non c’è più nessun luogo sicuro, da nord a sud. Alcune delle oltre 1.000 incursioni contro Gaza effettuate fino a ieri sera dall’aviazione israeliana, hanno preso di mira postazioni e strutture governative persino sul lungomare di Gaza dove abita anche buona parte degli stranieri che, per conto di Ong e agenzie dell’Onu o internazionali, lavorano nella Striscia. Ieri hanno vissuto attimi di forte paura anche gli otto cooperanti italiani con appartamenti nell’edificio «Abu Ghalion», per un bombardamento avvenuto a poche decine di metri di distanza contro una postazione della guardia costiera. «Ci siamo spaventati molto, è stato un boato terrificante», ricorda Salvo Maraventano. I cooperanti restano a Gaza, per il momento. Per due giorni consecutivi sono stati allertati ad essere pronti a lasciare la Striscia, con un convoglio organizzato dall’Onu. Convoglio che però non è ancora partito per il valico di Erez. E lasciare Gaza non è proprio ciò che desiderano alcuni degli otto italiani. Valentina Venditti l’altro giorno aveva gli occhi gonfi di pianto perché non voleva abbandonare sotto le bombe i suoi amici palestinesi. Per ora resta qui. Non lascia Gaza neppure l’attivista napoletana Rosa Schiano, da un anno nella Striscia, che ha passato le ultime quattro notti all’ospedale «Shifa» per registrare i feriti dei bombardamenti e riferirne, attraverso i social network, alle reti italiane di solidarietà  con la Palestina. Il ricordo di Vittorio Arrigoni è molto forte tra gli italiani che sono a Gaza. Quattro anni fa fu Vik ad informare l’Italia, in modo decisivo e attraverso il nostro giornale, di ciò che avveniva nella Striscia schiacciata dall’urto dell’offensiva «Piombo fuso» (1.300 morti palestinesi). Quella in corso oggi porta il nome di «Pilastri di Difesa». Cambiano i nomi, gli effetti sono gli stessi. L’operazione in corso deve essere completata, ha avvertito ieri il ministro israeliano dell’educazione Gideon Saar. «Hamas non è nella posizione di poter dettare alcuna condizione. Qualunque cosa – ha aggiunto – sia successa prima dell’operazione non continuerà  dopo che sarà  finita. Nel momento in cui potremo essere certi di questo, ci fermeremo». La guerra perciò va avanti e si rischia l’escalation dell’invasione di terra. Il bilancio di morti palestinesi è arrivato a 44, i feriti sono quasi 400. I cacciabombardieri e i droni israeliani, ieri dopo aver ridotto in macerie decine di «edifici di Hamas», hanno inquadrato nel mirino i capi locali delle Brigate Ezzedin al Qassam, l’ala armata di Hamas, e delle altre formazioni impegnate nella lotta armata e a lanciare razzi verso Israele: le Brigate al-Quds (Jihad Islami), al-Ansar (islamiche), del Fronte Democratico, Abu Ali Mustafa (Fronte popolare) e an-Nasser Salah Addin (Comitati di resistenza popolare). I morti di ieri sono i maggioranza miliziani ma non mancano i «danni collaterali» , come qualcuno ama chiamare le vittime civili. Ieri i miliziani palestinesi hanno sparato altre decine di razzi verso il sud di Israele, tenendo sotto pressione migliaia di civili, e lanciato verso Tel Aviv un missile Fajr 5 (intercettato dal sistema di difesa Iron Dome), un modello di fabbricazione iraniana che però Tehran nega di aver passato o venduto ai palestinesi. I razzi sono caduti anche su Asdot, Netivot e Persheeva. Prosegue anche la guerra su computer e telefoni. Dopo le battaglie a colpi di tweet con l’Idf (l’esercito israeliano), ieri le Brigate al Qassam sarebbero riuscite ad inviare un sms a molti cittadini israeliani: «Trasformeremo Gaza in un cimitero per i vostri soldati». Venerdì era stato l’esercito israeliano ad inviare 12mila sms alla popolazione di Gaza: «State lontano da Hamas, si apre la porta dell’inferno». La guerra vera intanto è alle porte. Scuole e università  di Gaza hanno chiuso, le attività  economiche sono ferme, i negozi chiusi. La gente fa la fila per ore davanti ai forni e alle stazioni di rifornimento pur di ottenere qualche libro di benzina.


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