Una politica euro-mediterranea
Il 14 novembre è una data spartiacque che, a mio avviso, verrà ricordata come un passaggio di fase, quella che in geometria analitica si chiama “punto di flesso”. Per la prima volta, da quando la crisi finanziaria ha impattato sull’Europa ed è iniziato lo smantellamento del welfare state e un’operazione capillare di “macelleria sociale”, c’è stata una rivolta che ha coinvolto nello stesso giorno, nelle stesse ore, i paesi del sud Europa. Per troppo tempo abbiamo assistito alle rivolte solitarie del popolo greco, di quello spagnolo o portoghese contro le politiche di austerity della Ue e accolte dai rispettivi governi nazionali. Ogni governo dei cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) ha pensato di salvarsi da solo, attraverso un estenuante negoziato con la troika: Fmi, Bce e Banca Mondiale. Tutti i governi del sud Europa hanno accettato la medicina amara di Bruxelles, sperando di salvarsi – da soli – dal fallimento e puntando su tempi migliori. Il risultato è stato solo quello di far precipitare la crisi, di impoverire la gran parte della popolazione, di fare schizzare verso l’alto la disoccupazione, di far crescere spaventosamente il rapporto debito/Pil: dal 78 per cento in media nei Piigs nel 2008, ad oltre il 110 per cento oggi!
Negli anni ’30 del secolo scorso, il prestigioso economista Irving Fisher aveva sintetizzato queste politiche folli che avevano portato ad una “deflazione da debito” con una frase rimasta famosa: più i debitori pagano, più saranno indebitati.
Gli studenti e i lavoratori che sono scesi nelle piazze del sud Europa hanno capito proprio questo: i pesanti sacrifici imposti alle popolazioni sono non solo inutili, ma addirittura dannosi. Ed hanno altresì ben compreso che è necessaria un’unità d’intenti, una solidarietà forte e chiara tra gli studenti ed i lavoratori di tutti i paesi dell’Europa Mediterranea. In breve, hanno posto la questione dell’Europa mediterranea che è stata richiamata a ragione da Angelo Mastrandrea (sull’editoriale dell’altro ieri), come un controcanto della nostra secolare “questione meridionale”.
C’è, infatti, una “questione mediterranea” dentro la costruzione dell’Unione Europea che la crisi finanziaria ha fatto scoppiare, ma che covava da tempo. Malgrado i fondi comunitari per la coesione territoriale, il divario – in termini di produttività , valore aggiunto, reddito pro-capite, ecc – tra i paesi dell’Europa meridionale e quelli del centro-nord Europa ha iniziato a crescere con l’avvento dell’euro. La moneta unica ha impedito ai paesi più deboli dell’Eurozona di usare la svalutazione competitiva delle valute nazionali, avvantaggiando i paesi con una industria tecnologicamente più avanzata, a partire dalla Germania. C’è poi un secondo handicap, meno conosciuto e valutato. Negli ultimi venti anni, a partire dalla caduta del muro di Berlino, la politica di allargamento della Ue è andata nettamente in direzione dell’est Europa, favorendo l’espansione delle economie del centro-nord Europa (Germania in primis), e tagliando fuori in gran parte i paesi del Sud Europa. In termini di scambi economici e culturali, e soprattutto politici, l’Ue ha abbandonato ogni interesse manifestato in passato (chi si ricorda più del meeting di Barcellona del 1995) verso i paesi della sponda sud-est del Mediterraneo. I popoli del Mediterraneo sono ormai visti da Bruxelles o come un pericolo per la “sicurezza” (leggi: i migranti extracomunitari) o come un pericolo per la stabilità monetaria (leggi: i popoli del sud-Europa) in quanto sfaccendati e spreconi.
S’impone pertanto una riflessione politica sul futuro della Ue, dell’eurozona e dei paesi del Mediterraneo. C’è chi, come Bruno Amoroso nel suo ultimo saggio, propone di tradurre con due monete l’Europa a due velocità : un Euro A per i paesi dell’area scandinavo-tedesca ed un Euro B per i paesi del sud Europa. C’è invece chi, come una parte delle forze politiche (soprattutto di destra estrema) dei paesi del sud-Europa, propone di uscire semplicemente dall’euro e tornare alla valuta nazionale. C’è infine chi, compreso il sottoscritto, pensa che bisogna rinsaldare i legami sociali e politici tra i Piigs ed andare insieme a sedersi a Bruxelles per rinegoziare/ristrutturare il debito pubblico. In caso contrario, uscire tutti insieme dall’Eurozona e avviare da subito la costruzione di un’area economica Euro-Mediterranea, coinvolgendo i paesi della sponda sud-est, a cominciare dalla Turchia tenuta fuori, stupidamente, dall’Unione Europea. Ma non è solo una questione economica, c’è la necessità di rompere il muro che divide il fondamentalismo islamico da quello occidentale, di creare una grande area euro-mediterranea, un’area di pace e cooperazione reale in cui tutta le persone, e non solo le merci, possano spostarsi liberamente, un’area con al centro e nel cuore la “Gerusalemme liberata” dall’occupazione israeliana. Un’utopia? Certo, finché si resterà legati e schiavi del debito pubblico, che qualcuno ha il coraggio di chiamare “debito sovrano”!
Il messaggio delle grandi manifestazioni popolari del 14 novembre è chiaro: lottare uniti per abbattere il debito e salvare la nostra società , i nostri valori, i diritti degli studenti e dei lavoratori. Purtroppo, manca la traduzione politica di queste istanze largamente popolari. Soprattutto nel nostro paese dove siamo incartocciati a discutere di porcellum e alleanze, senza che nessuna forza politica spenda una parola chiara sul nostro futuro, sul nostro posto e ruolo nella Ue e nel Mediterraneo. Penso che Alba e le organizzazioni/associazioni che stanno convergendo per costruire un’alternativa non riformista/minimalista al neoliberismo, debbano porsi seriamente la “questione mediterranea”, uscendo da un soffocante dibattito politico da condominio. A partire da quanto ci ha insegnato questa straordinaria manifestazione del 14 novembre: nessuno si salva da solo.
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