L’ipotesi di voto anticipato dopo la riforma del Porcellum

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ROMA — Il giorno dopo la bufera politica scatenata sull’annuncio del governo sulla possibile separazione delle elezioni Regionali da quelle Politiche, il capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale il presidente del Consiglio che precedentemente aveva avuto colloqui telefonici con Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Il percorso ipotizzato al termine di una giornata fitta di contatti — culminata con il colloquio tra Giorgio Napolitano e Mario Monti — punta dritto a evitare una fine traumatica della legislatura, con un’interruzione brusca delle riforme messe in cantiere fin qui dal governo tecnico presieduto da Monti.
Sul «timing» di fine legislatura, in linea di massima, il Quirinale e Palazzo Chigi vedrebbero come una via d’uscita dall’impasse l’«election day» (Regionali nel Lazio, in Molise e in Lombardia più le politiche) nel mese di marzo. Non sono escluse, dunque, elezioni anticipate (anche se di poco) ma la condizione irrinunciabile per il Colle è quella che prima vengano approvate la legge di stabilità  (l’ex «finanziaria») e la legge elettorale. L’incastro dei tempi è molto complesso: per questo ieri è sceso in campo anche il presidente del Senato, Renato Schifani, che ha confermato la calendarizzazione in aula «entro novembre» della riforma elettorale: «La prossima settimana il testo dovrebbe essere votato in commissione».
Così, dopo il «niet» di Angelino Alfano, che non vuole le elezioni Regionali separate da quelle Politiche come ipotizzato dal ministro dell’Interno, Palazzo Chigi si è messo in moto per evitare il diffondersi del vento di crisi di governo alimentato senza troppi giri di parole dal Pdl. E ieri, prima dell’incontro al Quirinale, un’apertura non piccola era arrivata anche da Pier Luigi Bersani: per lui l’election day non è un tabù assoluto perché, dopo aver fatto la legge elettorale, si potrebbe anche andare alle urne per le Regionali e le Politiche in una sola data. Però, per il segretario del Pd, in primavera (a metà  marzo o all’inizio di aprile) tornando così all’ipotesi originaria maturata in consiglio dei ministri. Poi, dopo i colloqui di Monti con gli altri segretari di partito, avrebbe preso quota l’ipotesi di andare al voto all’inizio di marzo: una soluzione mediana, questa, che accontenta il Pdl e l’Udc, e sulla quale il Pd non si mette di traverso. Su una posizione non distante anche Casini: «Non possiamo permetterci 5 mesi di campagna elettorale».
Fissare la data a marzo contemplerebbe anche una «exit strategy» non traumatica in caso di dimissioni di Monti per un eventuale ritiro della fiducia da parte del Pdl, dopo il varo della legge di Stabilità , della riforma elettorale e, magari, anche del decreto legislativo sull’incandidabilità  dei condannati in via definitiva. In caso di rottura anticipata della «strana maggioranza», il capo dello Stato potrebbe rinviare il governo alle Camere per un verifica sui numeri e, a quel punto, verrebbero sciolte le Camere con un anticipo stimato intorno ai 60 giorni.
Oggi di tutto questo si parlerà  in Consiglio dei ministri anche se da palazzo Chigi fanno sapere che nessuna decisione è attesa dopo che il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, ha annunciato che il voto regionale sarebbe stato anticipato al 10 febbraio rispetto a quello per le politiche inizialmente ipotizzato per il 7 aprile. Per provare a sbrogliare la matassa, il governo dovrà  pur tenere conto del verdetto del Consiglio di Stato che già  oggi decide se accogliere o no la richiesta di sospensiva (il Tar prevede che entro oggi si fissi al data delle elezioni nel Lazio) presentata dalla governatrice dimissionaria Renata Polverini.


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