Ritorno ad Haiti, l’isola dei bambini perduti
PORT-AU-PRINCE (Haiti) — Il fascino è sempre quello: e ne rimani stregato mentre all’aeroporto il taxi procede in salita verso il centro della capitale, le minuscole case aggrappate alla montagna come greggi di pecore o capre sugli alti pascoli.
Questa volta, però, l’isola porta i segni della catastrofe che l’ha colpita dopo il devastante terremoto del 12 gennaio 2010, cui fece seguito l’epidemia di colera — ora agli sgoccioli, con gli ultimi decessi a fine ottobre — con oltre settemila morti.
Un rapido pellegrinaggio nella tragedia mi conduce al villaggio di Calaville, nel Sud del Paese – dove incontro Madame Billy, una signora di 35 anni, che vive in una casa di tre metri per quattro, fatta di terra e giunchi. Era appena passato l’Uragano Sandy — racconta — e lei ha vissuto «ore terribili» nel timore che si portasse via in una raffica lei e i suoi sei figli, la sua casa, i suoi animali e anche l’orticello.
Quel 24 ottobre Sandy ha risparmiato la traballante casupola che anche un modesto venticello avrebbe potuto sradicare. Come tant’altra gente della piccola comunità montana, Billy e il marito dormono coi sei figli in un unico letto, badando di non «schiacciare» nel sonno l’ultimo nato, di pochi mesi. La famiglia — ammette — può permettersi un solo pasto al giorno, verso le 13, poi «più nulla fino all’indomani». Il menù quotidiano è di quattro pagnotte, che Madame Billy tiene sotto uno scolapasta «per proteggerle dalle mosche», sempre pronte all’arrembaggio.
Anche se i dati non sono facilmente verificabili, la popolazione di Haiti sarebbe di circa 10 milioni di abitanti su una superfice di trentamila chilometri quadrati: provocando la morte di trecentomila persone — ha commentato qualcuno con una certa dose il cinismo — il terremoto del 2010 avrebbe per lo meno contribuito ad alleviare i disagi di una comunità già troppo numerosa, grazie al flusso continuo di «sfollati» ed «evacuati» che invadono Port-au-Prince o trovano rifugio in uno dei 600 campi profughi.
I sopravvissuti all’epidemia del colera hanno trovato provvisoria sistemazione in un quartiere di baracche e tuguri sorto lungo una strada che attraversa il centro della capitale: dove la povertà appare ancora più evidente che in periferia o nelle remote zone di provincia. A Haiti c’è gente che, secondo i risultati di un’inchiesta, vive con meno di un dollaro al giorno, mentre il 70 per cento della popolazione risulta disoccupata. Emergono poi dati allarmanti sulla mortalità infantile, se è vero che un bambino su tre muore prima di aver compiuto cinque anni.
La salute è il problema che oggi assilla maggiormente il governo di Port-au-Prince. E qui va segnalato l’intervento italiano da parte della Fondazione Francesca Rava, che opera Haiti da 25 anni sotto la guida di Padre Rick Frechette, medico in prima linea riconosciuto da tutti come leader degli interventi sull’isola con il lavoro di 1600 haitiani.
Quando visitai l’isola l’ultima volta, a fine aprile del 2005, mi raccontarono che quasi ogni mattina all’alba Padre Rick scendeva furtivo sulla spiaggia per raccattare i cadaveri dei neonati che le madri avevano abbandonato non essendo in grado di sostenere la spesa del funerale e dar loro, altrettanto furtivamente, una degna sepoltura. Dall’anno dell’indipendenza, raggiunta nel 1804, Haiti era passata da un bagno di sangue all’altro e aveva subito ben 32 colpi di Stato. Vano il tentativo, durante una delle mie trasferte nell’isola, di strappare un incontro ravvicinato al bieco dittatore Jean-Bertrand Aristide, che, succeduto a Duvalier e Papa Doc, altrettanto biechi, aveva governato il Paese per 14 anni e s’era poi dato alla fuga in Sudafrica, nel 2004.
Repellente il ritratto schizzato dai suoi nemici. L’uomo aveva studiato in seminario e aveva anche ricevuto gli ordini. Ma era un sacerdote perverso, feroce, vendicativo. Il giornalista Piero Longo, che aveva soggiornato a lungo a Port-au-Prince e lo conosceva molto bene, lo definì «crudele e spietato».
Fra i tanti progetti avviati dopo la catastrofe del terremoto due centri di reidratazione, il Santa Filomena Hospital a Tabarre, 30 posti letto a Cité Soleil nel nuovo ospedale Saint Mary, 40 mila malati curati fino ad oggi, la maggior parte (il 90 per cento) bambini. Cui bisogna aggiungere 80 mila bambini assistiti ogni anno nell’ospedale psichiatrico Saint Damien, unico pediatrico gratuito sull’isola, per malnutrizione, polmoniti, infezioni, Hiv.
Ma nonostante le precauzioni prese subito dopo lo sconquasso dell’uragano Sandy, la minaccia del colera è sempre presente ad Haiti: perché nell’acqua dei fiumi o di un qualunque rigagnolo che scorra nelle città o nelle zone agricole la gente butta gran parte dei rifiuti domestici, che altrimenti vengono accumulati lungo i marciapiedi, dove il ciclo della putrefazione si conclude in un fetore che più immondo e osceno non potrebbe essere. Non di rado, secchiate di feci vengono ammannite ai pesciolini.
Merita senz’altro una visita il Corail camp di Haiti, un campo profughi a 15 chilometri da Port-au-Prince aperto nell’aprile del 2010, solo due mesi dopo il terremoto di gennaio. Inizialmente ospitava circa 9 mila persone e la Oxfam ha provveduto a placare la sete della popolazione con provviste d’acqua potabile mentre si costruivano nuove, piccole abitazioni in legno ai piedi della giogaia di Matheux. Contemporaneamente venne costituita una piccola industria tessile che diede lavoro a circa 30 mila persone. Il tutto sotto gli occhi vigili di Barbara Dorcé, funzionaria del servizio sanitario dell’Oxfam.
Tra i primi ospiti di Campo Corail una famiglia di tre persone — il padre David, la madre Marceline e la loro unica figlia, Sabine — che aveva lasciato la casa di Pétionville su cui incombeva la minaccia di una frana. «Qui abbiamo la nostra tenda e, grazie a Oxfam, acqua quanto basta per bere e cucinare. Vorremmo avere anche una toilette tutta nostra o per lo meno da spartire coi vicini di casa e curarne la manutenzione….Ma soprattutto vorrei che la mia Sabine andasse a scuola».
C’è chi lamenta che la presenza degli stranieri sull’isola — 12 mila tra militari e personale civile inviati dall’ONU dopo il terremoto del gennaio 2010 e per cui vengono spesi circa 850 milioni di dollari l’anno — abbia in qualche modo ridimensionato la sovranità del Governo di Port-au-Prince a favore di un ruolo più ampio nella sfera dei rapporti internazionali.
Sullo scacchiere geopolitico, Haiti è in una posizione cruciale. Infatti, sulla direttrice da Nord a Sud è punto di transito per il traffico d’armi dagli Stati Uniti all’America latina, mentre da Sud a Nord è sulla rotta delle sostanze stupefacenti che, attraverso la Repubblica domenicana, dalla Colombia procedono verso il Nord America.
Forse merita ricordare che Haiti è stato uno dei primi Paesi al mondo ad abolire la schiavitù e si prova un’amara sensazione quando qualcuno insinua che essa non sia mai scomparsa del tutto. All’ingresso del Musée du Panthéon National, il museo delle «catene» della schiavitù haitiana — l’unico edificio pubblico rimasto in piedi nel centro di Port-au-Prince — c’è la foto del Presidente Michel Martelly, su cui sta indagando una speciale Commissione del Senato per stabilire la «vera» nazionalità dei funzionari e ministri del Governo. L’accusa nei riguardi di Martelly è che il Presidente disponga di ben cinque passaporti diversi, tra cui uno emanato dagli Stati Uniti. Evidentemente falso. Difficile stabilire, a questo punto, se si tratti di un semplice inoffensivo pettegolezzo o se esistano prove a sostegno di questa voracità plurinazionalista del primo cittadino di Haiti.
Storditi di giorno dal traffico apocalittico che non dà tregua e avvelena il sangue, è con l’avvento della notte che la vivacità di Haiti si fa meno sguaiata, mentre il buio cancella parzialmente il sudiciume ai bordi delle strade.
Però la realtà quotidiana del Paese rimane quella dei sequestri di persona e delle rapine a mano armata, cui bisogna ora aggiungere la ribellione sulle piazze, la protesta di studenti e disoccupati che lamentano la negligenza del Governo e delle Istituzioni. Non deve perciò stupire se gli amici consigliano a tutti la prudenza e sconsigliano uscite e passeggiate nelle ore notturne, che favorirebbero l’intraprendenza dei malavitosi, protetti dalle tenebre.
Insieme ad altri colleghi, Luigi ed io trascorriamo tranquille serate sulla terrazza dell’albergo in collina, dove però il silenzio viene d’un tratto squarciato dalla scoppio di improvvisate orchestrine da ballo, annidate nei boschi tutt’intorno.
Poi cominciano a cantare i grilli, seguiti dai cani che si mettono a singhiozzare sulla propria solitudine: infine è il momento dei galli che non aspettano l’alba per lanciare, beffardi, il loro messaggio di discriminazione razziale alla galline, che se ne stanno zitte zitte, chete chete e il becco in giù, rassegnate al proprio destino. Le ho consigliate di inviare un chicchirichì sdegnato all’Associazione, appena nata, delle Donne senza Paura. Ma neanche mezza piega hanno fatto. Una dopo l’altra si sono assopite nel pollaio, nascondendo gli occhi sotto l’ala.
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